di Pietro De Carli

Il libro di Luigi Martini “K1 vertigine di ideali” approfondisce l’analisi storica del movimento operaio nella provincia di Ravenna, sia pure in una dimensione locale, ma strettamente intrecciata con le vicende politiche nazionali, tracciando gli esponenti più rappresentativi del partito socialista, che fin dalla vigilia della Grande Guerra, erano profondamente divisi tra pacifisti e interventisti.

Una ricerca documentata ricavata da una ricca quantità di fonti nell’arco di tempo 1920-1926 che ricostruisce le dinamiche di un territorio fortemente nutrito di passione civica e impegno politico e sociale, che aveva per protagoniste forze politiche capaci di esercitare un ruolo di riferimento nelle istituzioni locali, nell’economia e nella società civile, pur essendo in conflitto tra loro e al loro interno. Aveva per protagonista il sindacato, molto attivo nella tutela dei diritti dei lavoratori attraverso il loro coinvolgimento attivo nelle rivendicazioni che si prefiggeva. Un territorio con la peculiarità di un tessuto sociale cooperativistico estremamente articolato e diffuso che fondava la sua incisività nell’autogestione dei lavoratori che volontariamente vi aderivano, attraverso il quale i lavoratori ne traevano beneficio con rapporti di lavoro più tutelati, con servizi più efficaci, con approvvigionamenti di generi alimentari a prezzi calmierati e con possibilità di pagamento rateizzato, con strutture di raccolta e commercializzazione dei prodotti in grado di tutelare gli interessi dei contadini che li producevano. Non mancava infine un movimento cattolico che in alcune sue componenti era sensibile ai precetti di giustizia sociale.

Luigi Martini ha il merito di aver studiato una quantità innumerevole di atti e documenti storici che gli hanno consentito di porre in primo piano tanti semplici cittadini che in quel decennio hanno esercitato il ruolo di protagonisti in ogni località del territorio ravennate e romagnolo.

Il punto di riferimento che animava il dibattito interno al partito socialista era fortemente condizionato dagli eventi della rivoluzione russa, prima, durante e successivamente alla sua affermazione. L’analisi politica delle prese di posizioni si diramava nell’impegno di proselitismo e di mobilitazione dei lavoratori, soprattutto bracciantili che, nella specificità della Romagna, erano protagonisti di una corposa esperienza di associazionismo nell’ambito della cooperazione agricola, di cui fu precursore un socialista di grandi vedute come Nullo Baldini. Ma per i giovani socialisti rivoluzionari, attratti dalle posizioni più estremiste, il bracciantato non era considerato in grado di produrre un movimento rivoluzionario perché corrotto dal riformismo socialista ravennate. L’antagonismo dei socialisti nei confronti dei repubblicani, particolarmente radicati nel territorio ravennate, si divaricava sul piano politico e nella competizione nella gestione di importanti aziende agricole del movimento cooperativo. Una divaricazione che traeva origine dalla spaccatura che, attorno al 1910, aveva indotto i repubblicani a dar vita a un loro movimento sindacale e cooperativo autonomo, scindendosi dalle organizzazioni unitarie.

Luigi Martini descrive con meticolosità, sulla base delle numerose testimonianze raccolte, l’infuocato dibattito all’interno del PSI che portò alla nascita della frazione comunista ed alla scissione dal partito. Un dibattito osservato con indifferenza e sottovalutazione dai popolari e dai repubblicani. Questi ultimi pur di porsi in antitesi al partito socialista e al nascente partito comunista, li equipararono alle squadracce fasciste che intervenivano con brutalità e violenza contro i socialisti, i sindacati e le cooperative. Una deformazione politica che indusse molti repubblicani a simpatizzare per il partito di Mussolini e ad aderire ai “fasci di combattimento”, coinvolgendo anche sindacalisti repubblicani ad aderire ai sindacati fascisti (“Sindacati economici”) sorti nel 1920, sfociati nel 1922 nella “Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali”.  Ciò aveva ripercussioni anche all’interno del PRI, un partito legato al mazzinianesimo delle lotte risorgimentali, con posizioni divaricanti tra i repubblicani ravennati che nel 1919 si compiacevano dell’assalto fascista alla sede dell’organo ufficiale socialista l’Avanti” a Milano, in antitesi alla posizione antifascista del partito a livello nazionale. Non mancarono scontri tra gruppi facinorosi di repubblicani e socialisti, in un clima incandescente di violenza. Solo nel 1920 il Pri ravennate, a seguito di una modifica dei quadri dirigenti, assunse una posizione di incompatibilità con il fascismo. La nascita del PCd’I in Romagna non avvenne soltanto con uno scontro sulle diverse posizioni politiche che avevano originato la scissione, ma anche con posizioni di rottura nei confronti del PSI, accusato di convergenza con le forze politiche che esprimevano gli interessi della borghesia, indebolendo il fronte antifascista e in particolar modo la sinistra nel momento in cui gli attacchi dello squadrismo fascista accrescevano la loro ferocia. Luigi Martini traccia con una accurata descrizione la nascita dei “fasci di combattimento” nel ravennate, avvenuta nel 1921, in notevole ritardo rispetto alla loro creazione a livello nazionale (1919), descrivendone l’evoluzione nella anomalia di un Paese che tollerava nuclei armati di un partito politico nazionalista che caldeggiava gli istinti peggiori di odio nei confronti degli avversari politici. Un movimento politico capeggiato da un ex-socialista romagnolo, Benito Mussolini, convertitosi al più becero autoritarismo dopo aver cavalcato l’interventismo contro il neutralismo dei socialisti nella imminenza della prima guerra mondiale. Le squadracce fasciste esercitavano impunemente la loro violenza, al di fuori di ogni legittimazione istituzionale, con il compiacimento dei grandi proprietari terrieri (agrari dalle origini feudatarie) e della polizia monarchica abituata a reprimere ogni moto di protesta delle masse popolari. Gli agrari vedevano il fascismo come l’antidoto per scoraggiare il pericolo rivoluzionario che si annidava nella sinistra italiana e per questo lo sostennero senza esitazioni. La rivoluzione russa del 1917 aveva seminato il panico negli agrari. Essi temevano che potesse contagiare i ceti bracciantili e contadini che vivevano in condizioni di estrema povertà. I fasci di combattimento erano forme illegali di organizzazione, composte da volontari civili armati che agivano per conto e con i simboli di un partito politico, interferendo nella gestione dell’ordine pubblico che, per antonomasia, è di competenza esclusiva dello Stato. Squadracce armate che inizialmente presero di mira i partiti di sinistra (comunisti, socialisti e anarchici) ma ben presto anche le altre formazioni politiche dell’arco democratico (repubblicani, cattolici e liberali), con lo scopo di abbattere tutti i nemici che ostacolavano l’affermazione del regime fascista. Non si limitavano ad aggredire le sedi, i dirigenti e i militanti dei partiti, ma allargarono la loro azione violenta, aggressiva e vandalica nei confronti di tutte le espressioni della società civile, economiche e sociali, che esprimevano i germi di una società più egualitaria (camere del lavoro sindacali, aziende cooperative, case del popolo, ecc.), distruggendole e picchiando a bastonate chi vi si trovava.

Il 1° maggio 1920, in occasione delle manifestazioni per la festa del lavoro, gli squadristi oltre ad effettuare incursioni violente e ad incendiare case del popolo, commisero il primo omicidio. La vittima fu un facchino e cooperatore, “colpevole” di avere affrontato i fascisti per impedirgli di strappare la bandiera dei lavoratori collocata sulla porta di accesso alla città. Contemporaneamente, in diverse località della provincia, l’intervento dei carabinieri integrò l’operato degli squadristi nei confronti dei manifestanti con percosse e arresti, cantando inni fascisti. Quel 1° maggio la Romagna contò altre vittime, tra cui tre lavoratori nel forlivese, dovute alle incursioni di squadristi fascisti “forestieri”.

Le elezioni politiche del 15 maggio 1921 a livello nazionale premiarono il PSI come primo partito, in seconda posizione il Partito Popolare, terzo il blocco nazionale fascista e i liberali di destra, mentre il PCd’I nella sua prima competizione elettorale ottenne un risultato iniziale inevitabilmente esiguo (4,6%).

L’esito non soddisfacente del blocco fascista li induce ad accrescere l’azione violenta dei “fasci di combattimento”. Diversamente dai socialisti, i comunisti temono che i fascisti siano intenzionati a sovvertire l’ordine costituito con un colpo di stato e per contrastarli danno vita a formazioni armate. Gli “arditi del popolo” sorti in diverse zone d’Italia, furono costituiti anche a Ravenna, coinvolgendo non solo i comunisti, ma anche anarchici e semplici antifascisti. Il PSI invece decise di non farvi parte. Le incursioni degli squadristi fascisti provenienti da Bologna e Ferrara irrompono, nell’indifferenza delle forze dell’ordine e in alcuni casi con la loro complicità, in diverse località del ravennate contro case del popolo e camere del lavoro. La reazione dei comunisti di fronte alla complicità delle forze dell’ordine con gli squadristi fascisti sfociò in attacchi alle caserme dei carabinieri che provocarono feriti e arresti fra i dimostranti. Ma l’esecutivo nazionale del PCd’I sconfessa le formazioni degli Arditi del popolo non essendo chiare le loro finalità e il loro orientamento politico e decide di dar vita a proprie formazioni armate sulle quali conta di avere il controllo. Lo scopo di quelle formazioni era concepito come “reazione proletaria” agli eccessi del fascismo, con l’obiettivo ambizioso di ristabilire l’ordine e la normalità della vita sociale. La critica di Palmiro Togliatti al segretario del PCd’I Amedeo Bordiga non tardò a manifestarsi rilevando la scarsa efficacia di una “chiusa pattuglia di punta di un movimento rivoluzionario” che non aveva saputo costruire un fronte più largo e unitario nella lotta al fascismo.

Luigi Martini, avvalendosi di numerose fonti bibliografiche, svela il vero significato del fascismo, attraverso una analisi degli eventi che pone in evidenza la dimensione economica e sociale che sorregge gli eventi politici, individuando i ceti economici e sociali che traggono beneficio dall’avvento del fascismo rispetto a quelli che ne sono vittime. Nel ravennate Lugo divenne l’epicentro dello squadrismo fascista, con scontri cruenti dove, tra gli altri, fu assassinato un esponente comunista locale. A seguito delle incursioni violente degli squadristi fascisti la polizia effettuava arresti tra le vittime delle aggressioni lasciando impuniti i fascisti che ne erano responsabili. L’intervento degli squadristi nel caso di Lugo, come più in generale nel Paese, corrispondeva a precisi interessi economici a favore della borghesia. La distruzione delle cooperative di consumo lughesi che, non avendo scopi di lucro, calmieravano i prezzi, favoriva i commercianti che riacquistavano più clientela aumentando i loro margini di guadagno. La distruzione delle cooperative dei birocciai, che operavano con tariffe di trasporto stabilite con il comune, favoriva prezzi al ribasso con trasportatori improvvisati nell’interesse dei fornitori e acquirenti di merci. La distruzione delle camere del lavoro sindacali consentiva agli agrari di eludere le tariffe contrattuali elargendo ai braccianti condizioni salariali miserabili stabilite, a loro discrezionalità. La violenza fascista contro il tessuto sociale dell’associazionismo cooperativistico e delle organizzazioni sindacali trovava la sua saldatura e un riscontro favorevole nel terreno fertile dei ceti borghesi che ne traevano beneficio. Il fascismo diveniva lo strumento di restaurazione degli interessi della borghesia, degli agrari e degli industriali, interessati a costruire un argine alle conquiste dei lavoratori. Lo squadrismo fascista poté dilagare impunemente grazie alla benevolenza del governo Bonomi che non prese alcun serio provvedimento per impedire le continue violazioni della legge perpetrate dagli squadristi.

Luigi Martini descrive dettagliatamente l’intensificazione e l’espansione della violenza dello squadrismo eversivo fascista in tutti i territori della Romagna, che agiva impunemente avvalendosi del sostegno delle forze dell’ordine che completava l’opera con gli arresti di coloro (qualificati come “sovversivi”) che vi si opponevano. Evidenzia meticolosamente le sedi dei partiti di sinistra, i loro circoli territoriali, quelle del sindacato e della cooperazione aggredite, espugnate, distrutte o incendiate dopo aver aggredito con bastoni, spranghe e armi da fuoco chi cercava disperatamente di presidiarle, le incursioni con la distruzione delle macchine agricole delle cooperative bracciantili, ponendo in luce i protagonisti delle azioni violente e le numerose vittime che ne scaturirono. La brutalità del fascismo non lesinava violenze nei confronti dei lavoratori in sciopero che reclamavano il rispetto delle loro conquiste e di tutti coloro che non esprimevano adesione o soggezione al loro passaggio, la persecuzione metodica degli antifascisti, gli atti di ferocia ingiustificata nei confronti di vittime inermi, la sopraffazione dei più tenaci oppositori e le punizioni con ampio ricorso all’olio di ricino. Alla violenza segue il numero sempre più ampio delle amministrazioni comunali di sinistra costrette a dimettersi, lo scioglimento delle cooperative e, in alcuni casi, il loro commissariamento, sottraendole all’autogestione stabilita dai loro statuti.

Descrive altresì lo sgretolamento delle forze di sinistra e del fronte antifascista, le divisioni tra socialisti e repubblicani, le adesioni di molti repubblicani e popolari (cattolici) al partito fascista, la spaccatura insanabile tra comunisti e socialisti, il tentativo infruttuoso della Internazionale Comunista di ricompattare la frattura tra comunisti e socialisti per arginare l’avanzata inesorabile del fascismo,

Le ripercussioni della devastazione fascista di tutte le espressioni del movimento operaio, che ne tutelavano i diritti, sono rilevanti. Nel 1922 a livello nazionale i salari erano mediamente diminuiti del 30%, i disoccupati erano aumentati di 500.000 nel corso dell’anno, il sindacato CGL era passato da due milioni a 800.000 mila aderenti, al sindacato dei lavoratori agricoli Federterra, che contava un milione e mezzo aderenti, ne rimaneva appena 200.000.

Si completava così l’opera di repressione violenta ad opera di corpi eversivi estranei allo Stato, con il beneplacito delle istituzioni rappresentative dello Stato, contro le organizzazioni politiche, economiche e della società civile legittimamente costituite dal movimento operaio, che non risparmiò neppure le istituzioni elettive territoriali, come i Consigli comunali e provinciali a maggioranza socialcomunista, costrette a soccombere alla violenza dello squadrismo fascista. Le formazioni armate delle “camicie nere” rappresentavano una anomalia in uno Stato di diritto, che agivano senza alcun riscontro di legalità, che esercitavano il loro arbitrio esautorando i corpi delle forze dell’ordine, riuscendo persino a trascinarle in un’azione eversiva incostituzionale. Il punto di forza derivava dalla concezione dello Stato al servizio del grande capitale e di tutti i ceti benestanti che traevano profitto dallo sfruttamento del lavoro, contro ogni espressione democratica politica e sindacale che potesse danneggiarne gli interessi. Ruolo interpretato dalla monarchia che osservava con benevolenza l’operazione eversiva del partito fascista, imposto a tutti i corpi dello Stato preposti alla difesa dell’ordine pubblico, piegando il diritto alla loro volontà. Gli scioperi non erano più una manifestazione di diritto dei lavoratori, ma un atto eversivo da reprimere. I sindacati rappresentativi dei lavoratori che vi aderivano liberamente, andavano abbattuti e sostituiti da corporazioni sindacali di stampo medioevale sotto il rigido controllo di un governo autoritario. Alla vigilia della marcia su Roma i fascisti avevano ucciso più di seicento oppositori a livello nazionale, di questi 42 nelle province di Forlì e Ravenna.

Luigi Martini, nella sua attenta ricostruzione degli eventi, giunge a descrivere l’epilogo, l’atto che consentì al fascismo di legittimare la sua ascesa al potere, la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, seguite alle numerose adunate fasciste di sostegno politico organizzate a livello territoriale. L’organizzazione di una marcia di migliaia di militanti e squadristi fascisti per raggiungere la capitale, luogo del potere istituzionale, serviva ad esercitare una pressione per rivendicare dal sovrano l’assegnazione della guida politica del Regno d’Italia al loro leader, minacciando, altrimenti, la presa del potere con la violenza. Due giorni dopo Re Vittorio Emanuele II non esitò ad assegnare a Benito Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo che poté così sfoderare il meglio del suo narcisismo e della sua arroganza alla Camera affermando con disinvoltura: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo; ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». Da quel momento lo squadrismo fascista ebbe ancor più mano liberà per la bonifica antibolscevica volta a cancellare quel che rimaneva delle espressioni del movimento operaio e antifascista, perseguitando con violenza e sopprimendo con ferocia la vita di chi si opponeva al fascismo.

Numerosi esponenti comunisti e socialisti sono costretti a darsi alla clandestinità per sfuggire alle persecuzioni fasciste e buona parte di essi cercheranno di trovare rifugio in Francia. La violenza repressiva non risparmiò gradualmente tutti gli oppositori e dissidenti inclusi i repubblicani, i popolari, associazioni cattoliche e persino dei sacerdoti. Bisognava ripulire l’intero territorio nazionale dal contagio comunista e antifascista per renderlo inoffensivo. In gennaio 2023 il Gran Consiglio del Fascismo istituì la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn) irregimentando e legalizzando i squadristi delle squadre d’azione come milizia al servizio del fascismo.

Luigi Martini descrive gli accadimenti locali strettamente intrecciati con quelli nazionali. Tra questi l’approvazione di una legge elettorale (legge Acerbo) in novembre 1923 che assegnava i due terzi dei deputati al partito di maggioranza relativa con almeno il 25% dei voti validi. Così alle elezioni del 6 aprile 1924, grazie anche ai metodi intimidatori utilizzati durante la campagna elettorale, le liste fasciste ottennero il 64,9% di voti con 374 su 535 seggi in parlamento, i partiti socialisti Psi e Psu ottennero l’11% dei voti, il Partito Popolare il 9%, il Pcd’I il 3,74% e il Pri l’1,6%. Il caso più eclatante della brutalità del regime fascista avvenne con l’assassinio di Giacomo Matteotti, deputato e segretario nazionale del Partito socialista unitario (Psu), nato da una scissione dal Psi, su indicazione del Duce (Mussolini) che non esitò ad eliminare fisicamente uno dei suoi più fieri oppositori. Si moltiplicarono gli arresti anche di semplici militanti dei partiti antifascisti, con particolare accanimento nei confronti dei comunisti, che commettevano il reato di proselitismo organizzativo e divulgazione di propaganda sovversiva, molti dei quali inviati “al confino”, dopo un periodo più o meno lungo di carcere, per lo più in isole o piccoli paesi delle aree interne del meridione, distanti da quelle di origine, per impedirgli di proseguire i loro “reati”.

Questo libro di Luigi Martini offre la possibilità di conoscere con dovizia di informazioni la storia, l’impegno, la dedizione e il sacrificio degli antifascisti, numerosi e in gran parte sconosciuti, che in quel decennio turbolento e decisivo successivo alla prima guerra mondiale fino all’avvento del fascismo hanno mantenuto fede ai loro ideali e valori, battendosi con fermezza contro la l’intolleranza e la brutalità di un regime autoritario. Si tratta di un libro ben fatto, di qualità saggistica, che si legge agevolmente grazie all’abbinamento degli avvenimenti storici con le vicende umane dei numerosi protagonisti. Una fatica letteraria dall’esito eccellente che ci offre la ricostruzione storica di un secolo fa, per non dimenticare gli eventi esecrabili di un regime fascista che ha riportato indietro la storia, calpestando i diritti dei soggetti più deboli, inseguendo – nell’arco di un ventennio - manie imperialistiche e assurde follie guerrafondaie con lo slogan velleitario di “otto milioni di baionette”.

Questo primo libro fa parte di una serie di quattro volumi con i quali Luigi Martini si prefigge, dopo l’arco temporale del 1920-1926, di approfondire il periodo 1927-1943, le biografie dei principali dirigenti comunisti dal 1921 al 1943 e, infine, le biografie dei principali protagonisti comunisti e antifascisti ravennati.

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