Sono molti i modi per leggere le ultime vicende afghane, ma la lettura che ne dà Franco Ferrarotti è di straordinario interesse per la vastità delle tematiche affrontate, la profondità delle argomentazioni, la precisa indicazione delle responsabilità

Franco Ferrarotti
(Intervista di Agostino Bagnato)


Ennio Calabria, Ritratto di Franco Ferrarotti, 2021, pastello su carta, cm 70x52

Oggi si conclude il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. L’Italia ha completato il ritorna a casa due giorni fa, traendo in salvo oltre tremila afghani. Lo spettacolo degli Stati Uniti, della Nato e di tutto l’Occidente è davvero deprimente e non lascia spazio a speranze. Cosa pensa, professor Ferrarotti, di questa tragica sconfitta dell’Occidente democratico rispetto all’Afghanistan tribale?
La prima cosa che desidero dire riguarda la durata dell’occupazione degli Stati Uniti e della Nato. Venti anni rappresentano una generazione, durante la quale succedono moltissime cose che cambiano la storia di una nazione e di un popolo. Si tratta della guerra più lunga combattuta dagli americani da sempre. Nessun obiettivo iniziale è stato raggiunto, se non quello di vendicare l’attentato alle Torri gemelle del 2001, uccidendo Osama Bin Laden dopo circa dieci anni da quella data e qualche altro capo terrorista del talebani. Joe Biden ha posto fine alla guerra più lunga combattuta dagli americani, dentro e fuori dal loro territorio.

Il principale obiettivo della missione riguardava proprio vendicare quella terribile ferita, ma anche l’illusione di poter costruire una prospettiva democratica per l’Afghanistan, saldamente alleato degli Stati Uniti in quel punto nevralgico del mondo. Perché non ha funzionato? Del resto non ha funzionato neanche in altri Paesi.
Esportare la democrazia, come è stato detto da tanti e in numerose occasioni, non è possibile senza la partecipazione della maggioranza della popolazione. In Afghanistan soltanto sparute avanguardie di borghesia produttiva e intellettuale hanno sostenuto e preso parte al progetto americano. Non c’è solo la responsabilità USA per il fallimento di questo obiettivo, ma dell’intero mondo occidentale, delle democrazie europee, delle società più avanzate. E’ mancato il brodo culturale in cui nasce e cresce la democrazia che non è una volontà pura e semplice, ma un’attitudine, un costume civile, un modo di vivere per sé e per gli altri. Quindi, deve essere condivisa e partecipata. Tutto ciò è mancato. Lo stesso è successo nell’Africa settentrionale dieci anni fa, con quella che abbiamo chiamato la “primavera araba” e che tante speranze aveva suscitato. Tutto è finito nel nulla, provocando una profonda delusione in Occidente e l’interrogativo di cosa bisogna fare per rompere la gabbia dell’autoritarismo fondato sulle forze armate e sull’organizzazione ancora tribale della società. Le forze conservatrici e integraliste, legate alla tradizione musulmana ortodossa, hanno ripreso il sopravvento. Le conseguenze sono quelle che viviamo in Italia quotidianamente con i profughi politici e soprattutto economici che premono alle porte dell’Italia, per restarci o per entrare in altri paesi dell’Europa.

I costi dell’operazione afghana sono stati altissimi, oltre che in vite umane che non saranno mai risarcite, ma anche in termini economici. Perché questo grande impegno finanziario non ha prodotto niente?
Questo è il secondo aspetto che vorrei affrontare. Gli Stati Uniti hanno speso qualcosa come 2.313 miliardi di dollari per sostenere la campagna militare e mantenere l’occupazione del territorio. Si tratta di una somma gigantesca, anche se ripartita in venti anni. A questo bisogna aggiungere le spese sostenute dall’Italia, dalla Gran Bretagna, dalla Germania. Come sono stati impegnati tutti quei dollari? Nelle tasche di chi sono andati gli aiuti alla popolazione? Chi ha gestito e controllato la gestione stessa di quell’immenso fiume di denaro? Sono interrogativi aperti che attendono e meritano una risposta. Come mai non si è riusciti a costruire un sistema di relazioni interne, di assistenza socio-economica, di informazione politica? Per non parlare della mancanza di una intelligence sofisticata e affidabile. Cosa hanno fatto in venti anni gli uomini della CIA per creare quel reticolo di relazioni e di informazioni con la popolazione, senza il quale non si riesce a fare nulla di duraturo? La verità è un’altra.

Quale?
Gli americani non sono riusciti a creare un establishment affidabile, fondato sulle energie migliori del Paese, sull’intelligencija per quel poco che esisteva, sui poteri locali. Si sono fidati di quanti si dichiaravano appena disponibili, ma si sono rivelati corrotti. Tutti corrotti, a cominciare dai massimi governanti. Se si pensa che il Primo  ministro Ashraf Ghani è fuggito pochi giorni prima dell’arrivo dai talebani a Kabul portando con sé una somma enorme di denaro, chiaramente frutto della corruzione e di furti ai danni dello Stato. Ecco, non essere riusciti a combattere e sconfiggere la corruzione è stata la terza ragione del fallimento della missione americana.

Cosa bisogna fare per trarre una lezione, anche se dolorosissima, di questa esperienza?
Vengo al quarto aspetto che mi preme affrontare. La democrazia non si esporta con le bombe né con gli eserciti. Si tratta del regime più difficile perché, da sempre, è sperimentale.

In che senso?
La democrazia è legata allo spirito di comunità, alla fiducia interpersonale, al dialogo continuo tra gli individui, al confronto continuo dei punti di vista, sulla mediazione necessaria degli interessi. Non basta una Carta costituzionale per fare la democrazia. Verba manent, scripta volant, mi viene da dire. Nel senso che è il dialogo costante che porta a risultati apprezzabili e decisivi del governo democratico. Quindi, deve essere nella mente e nel cuore degli uomini, più che sui documenti formali. Per raggiungere questi risultati non basta una generazione. Inoltre, la democrazia per come la conosciamo in Europa, nasce dal sangue. La storia è prodiga di esempi. Da Cromwell al cartismo, per parlare dell’Inghilterra dove la democrazia politica è nata, il costo in termini di vite umane è stato altissimo. Questo processo che nasce dal basso e coinvolge fasce sempre più larghe della popolazione, dura secoli in alcuni casi.


Il territorio è disseminato delle tracce di decenni di guerra (foto R. Martinis)

Tutto questo è mancato nell’Afghanistan e nell’Africa settentrionale, come pure in Iraq e in Siria. Si poteva evitare?
E’ difficile dirlo. Gli americani sono ancora legati alla dottrina Monroe: «L’America agli americani». Il che si può tradurre nello slogan «Tutto per l’America e solo per l’America». A ciò si aggiunge il carisma del conto in banca, con il quale si pensa di poter fare e ottenere tutto.

In che senso, Professore?
Per gli americani il conto in banca è l’unico carisma che conta e che detta i comportamenti. Gli americani non hanno un passato storico consolidato e non hanno un rapporto storico con altre culture. In questa carenza formativa sta la presunzione di affrontare e risolvere i problemi applicando i principi della dottrina Monroe, come dicevo prima: «America to the Americans». James Monroe, nel messaggio al Congresso del 2 dicembre 1823, aveva sostenuto che l’America non doveva intromettersi negli affari europei e non avrebbe tollerato alcuna intromissione negli affari americani, ad eccezione delle colonie americane di proprietà europea. Inoltre, per loro ha contato anche l’isolamento geografico inteso come sicurezza. Trovarsi come continente tra due oceani lontani dagli altri continenti è stata considerata una difesa naturale inattaccabile e insormontabile. Questa illusione è caduta con l’attentato alle Torri gemelle. La tecnologia e lo sviluppo del trasporto aereo hanno reso più corte le distanze, annullandole in alcuni casi. I missili intercontinentali e le armi satellitari sono altrettante minacce che rendono vulnerabile qualsiasi paese, in qualsiasi latitudine si trovi. Si è visto come Osama bin Laden ha potuto colpire così duramente l’11 settembre 2001.

Quella resta ancora una ferita aperta…
Bin Laden ha colpito nella carne viva, nella parte più sensibile dell’America: quella dei simboli del dominio economico e commerciale. Le Torri gemelle ospitavano il World Trade Center, il Centro del Commercio Mondiale. Da non confondere con il WTO, World Trade Organization, che qualche anno prima aveva sostituito il GATT, il vecchio General Agreement on Tariffes and Trade, Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio che gli Stati Uniti avevano dominato con il Kennedy round, il Tokyo round e infine con l’Uruguay round, quest’ultimo condotto per molti anni di trattative a Punta de Este. L’America è stata colpita nel cuore e nei simboli del suo potere. Per questo è sembrata vacillare.

Quali saranno le conseguenze per l’Occidente? L’America continuerà ad esercitare la sua leadership sul mondo occidentale o, come appare evidente, sarà costretta a rivedere il suo ruolo?
Gli americani hanno subito una sconfitta tremenda in Afghanistan e non sarà l’ultima, purtroppo! Non hanno capito che non possono proiettare se stessi parlando e trattando con gli altri. La verità è che gli Stati Uniti sono una nazione di nazioni e trattano gli altri paesi come se stessero a casa loro, al proprio interno. L’esempio più clamoroso è quello che riguarda la creazione della Lega delle Nazioni nel lontano 1919: il presidente Woodrow Thomas Wilson l’ave promossa e sostenuta nella fase iniziale, durante la conferenza che ha portato al Trattato di Versailles. Ma non è riuscito a convincere il Congresso a fare parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il vero strumento capace di garantire la pace tra i popoli e le nazioni.

Perché?
Già allora gli Stati Uniti pensavano di poter risolvere le controversie internazionali come se si trattasse di un affare interno. La verità è che gli americani non sanno parlare con gli altri proprio per questo peccato d’origine, cioè non capire l’altro da sé. Non hanno imparato la lezione del Vietnam; probabilmente non impareranno la lezione di Kabul.

Non sarebbe stato più giusto condurre la guerra al terrorismo con i mezzi dell’
intelligence, la tecnologia militare più sofisticata. Ma è possibile che nessuno abbia spiegato agli americani che la popolazione afghana basava la sua esistenza millenaria sull’organizzazione tribale della società e sulla diversità del territorio e delle stesse popolazioni, sull’osservanza della sharia, sull’orgoglio dell’islamismo più intransigente appreso nelle madrase in lunghissimi secoli? Perché non è successo?

La democrazia non soltanto non si esporta, ma non s’improvvisa. Intendo la democrazia come senso di comunità, ampia e aperta, non pochi gruppi di potere secondo un modello arcaico di oligarchia. Tutto questo non è avvenuto. Inoltre, come si fa a costruire una comunità coesa negando il ruolo delle donne? Soltanto marginalmente le donne afghane sono state coinvolte nella organizzazione e gestione del potere. Non si tratta soltanto di abolire l’obbligo di indossare il burka. Perché è accaduto? Soltanto perché la tradizione coranica limita il ruolo della donna nella società, relegandola soltanto a funzioni domestiche?  C’è stata una sottovalutazione culturale. Ecco, dov’era l’establishment culturale? Nessuno si è ribellato in Afghanistan per questo diritto negato. Le poche donne che hanno saputo e potuto ritagliarsi una funzione lo hanno fatto sfidando enormi pericoli. E adesso che succede? Saranno abbandonate a se stesse, al loro destino? E le bambine che avevano iniziato un percorso scolastico nuovo, in alcuni casi, che fine faranno?


Nonostante tutto, a Kabul la vita continua (foto R. Martinis)

E’ mancato il ruolo del mondo intellettuale, della cultura in senso ampio?
Credo proprio di sì. L’assenza di un progetto basato sulla conoscenza della cultura di un popolo ha ingenerato gravissimi errori. Ma c’è anche la responsabilità della cultura occidentale nel voler leggere correttamente la storia e capirla, per tracciare un progetto di lungo respiro, coinvolgendo tutti i soggetti attivi della società afghana. Ora è tardi per riparare gli errori commessi. L’unica strada percorribile è tentare il dialogo con i talebani, mantenendo distinti i ruoli.

Cosa si sarebbe dovuto fare, professor Ferrarotti?
La democrazia costa lacrime e sangue. La storia lo insegna. Per conquistare una società democratica non bastano venti anni. Si tratta in alcuni casi di processi secolari, ancora neanche conclusi. In Inghilterra il cartismo, come ricordavo prima, ha provocato scontri durissimi nella società del tempo. Se guardiamo all’Europa nel suo complesso, possiamo affermare che il completamento della democrazia come scelta irreversibile non è terminato. Lo dimostrano casi non del tutto isolati, alcuni anche all’interno dell’Unione Europea. La democrazia europea è ancora prematura per dare quel quadro condiviso di comunità unita e coesa, non più reversibile perché la popolazione si oppone.

In questi spazi si annidano illegalità e corruzione, è così?
Intendo dire proprio questo. La formazione di un potere e la sua legittimazione talvolta comportano una violenza necessaria, come insegnava Max Weber. Non basta scrivere la Carta costituzionale, Grund Gesetze ovvero Legge base, perché il processo si compia da solo. Si tratta di una lotta continua, che talvolta comporta lacrime e sangue.

La popolazione deve essere disposta a questo, a sopportare sofferenze e lutti. Non è successo tutto questo in Afghanistan.
Non è successo per i motivi che ho detto, ma anche perché le promesse fatte dagli americani e dalla NATO non sono state mantenute. La popolazione ha visto l’occupazione e non la liberazione, il governo delle armi e del terrore e non il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.

Eppure, sono stati spesi 2.313 miliardi di dollari, cui si aggiungono quelli dei Paesi alleati, compreso l’Italia…
Ma a chi sono andati quei fiumi di dollari? Questo è il punto: la popolazione afghana non è stata coinvolta. I governi di Kabul, scelti e imposti dagli Americani, da Hamid Karzai ad Ashraf Ghani, hanno basato il loro potere sulla corruzione, senza riuscire a creare una classe dirigente minimamente corrispondente a quella di una democrazia nascente.

Gli americani non hanno combattuto la corruzione, forse l’hanno subita…
Non sono in grado di dire cosa sia realmente successo. Gli americani si sono fidati dell’apparato che spesso faceva capo ad afghani allevati e formati negli Stati Uniti.
 
Si può parlare di criminalità organizzata nel caso afghano, per gestire la corruzione?
In Italia, la mafia è un antistato che si configura come uno stato in quello principale, con le sue regole, le leggi e gli uomini per attuarle. Eppure, la criminalità organizzata, a cominciare dalla più temibile, la mafia appunto, e la corruzione che la sottende, sono combattute aspramente, ma senza successi definitivi perché non si è riusciti a debellarle. Ci sono ragioni profonde in tutto questo, che risalgono alla storia di un popolo e di una nazione, le loro connotazioni, le culture di base. Si tratta di aspetti che sono stati studiati e analizzati, senza riuscire a debellarli.


Tipico villaggio afgano nel centro del Paese (foto R. Martinis)

Come sarà gestito il prossimo futuro in Afghanistan?
E’ presto per dirlo. Nessuno aveva spiegato con chiarezza che i talebani erano una parte della società afghana, che era riuscita a imporsi sulle altre forze islamiche negli anni Settanta, senza che il sovrano di allora riuscisse a fare niente per impedire che venisse abbattuto il governo in carica e che aveva avviato un interessante processo di modernizzazione, puntando sul superamento del feudalesimo. Poi sono giunti i sovietici, combattuti dai talebani con l’aiuto americano. Osama bin Laden aveva creato Al Qaeda dopo il ritiro delle truppe sovietiche, senza che gli americani si accorgessero che si trattava di un gruppo terroristico anti occidentale. Da qui le Torri gemelle. Poi è nata l’ISIS, lo stato islamico con l’obiettivo di conquistare l’Iraq e la Siria, sotto l’occhio apparentemente distratto degli USA. Nessuno ha visto che questa mutazione si era verificata anche in Afghanistan e che ciascuno avrebbe combattuto per sé, per ottenere il potere a discapito degli altri. I talebani, meglio organizzati e forti del loro passato, hanno preso il sopravvento e in pochi giorni hanno conquistato gran parte del Paese.

Da qui gli attentati kamikaze all’aeroporto di Kabul, durante le operazioni di ritiro delle truppe e dell’evacuazione della popolazione che ha collaborato con le forze di occupazione. Com’è possibile che nessuno se ne sia accorto?
Qualcosa non ha funzionato. Tutto ciò è la conferma che non si può fare da soli. Senza il sostegno della comunità si producono disastri e talvolta  tragedie. Questa afghana è una vera e propria tragedia. E credo che non sarà l’ultima, purtroppo!

Grazie.

Agostino Bagnato
Roma, 31 agosto 2021

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