di Gregorio Caria
L’albero della vita. Un simbolo. Un messaggio. Una pietra miliare. Paracarro, avrebbero detto i vecchi contadini. Quale albero è più significativo nella vita di una persona? Un albero da frutto o da legna? O quello da cui si ricava legname per falegnameria?
Ma quanti alberi assolvono la stessa funzione, a pensarci bene… La campagna ne è piena. Ma ci sono alberi che svolgono una funzione univoca. Un tiglio fa solo ombra, preziosa quanto si vuole, ma solo ombra. Come il platano. Un agrumeto è solo frutto. Un noce è frutto e legname pregiato insieme. Un ulivo è tutto: frutto, legna da ardere, legname per mobili, ombra. Gli alberi offrono svariate interpretazioni, soluzioni pratiche e culturali. Un aloe non offre alternative all’ombra nei giardini e al colore dei suoi rami e delle foglie. La quercia è legna da ardere come il cerro: i frutti sono alimento per i maiali e le fiere del bosco. Ma la sughera è anche pianta ricercata per la corteccia da cui si ricavano molti oggetti. Un pino è ombra, ma anche frutto offerto dalla pigna e legna da ardere e da falegnameria. Il ciliegio è il simbolo della diversità per eccellenza: bellezza vegetale, fruttificazione preziosa, legno pregiato. Il pero produce frutti di svariate qualità, oltre che legno durissimo che i monaci ortodossi utilizzavano per dipingere le icone. Quale altra pianta ha una destinazione così privilegiata? Ci sono tante piante in via di estinzione, come il nespolo e il sorbo che pochi ricordano. Forse l’ulivo è assimilabile al ciliegio: la drupa è commestibile in tante forme, produce olio in seguito al processo di molitura, fino ad un secolo fa forniva sostanze per l’illuminazione e fare saponi. E’ uno dei miracoli della natura. E che dire del pesco, del melo, del sorbo, dell’albicocco, del nespolo del Giappone, del sorbo, del melograno? E il trionfo del fico che per due volte l’anno porta in tavola la dolcezza del Mediterraneo…
Tutto nasce in Mesopotamia, circa diecimila anni fa. E tutto si snoda sulle rive del Mediterraneo, connotando il territorio di una presenza vegetale che non ha repliche in nessuna parte del pianeta. Anche questo è un mistero della Natura.
Il platano monumentale di Curinga
Ma non sempre gli alberi sono considerati una ricchezza. Nelle campagne, l’arrivo della meccanizzazione e l’introduzione della monocoltura e delle colture specializzate hanno portato all’estirpazione di molte piante isolate e soprattutto dei filari lungo le capezzagne e i viottoli. Qualche pianta è sopravvissuta. Non sono patrimonio di tutti gli esseri viventi gli alberi superstiti, solitari i mezzo ai campi o nei giardini e negli orti? Non sono bene comune la bellezza che contribuiscono a fornire al territorio, al paesaggio, alle coste? Cos’è quell’agave che addolcisce l’orizzonte sulle rive pietrose quando cala il sole sulle acque del mare Tirreno pacificato dalla sera? L’albero come metafora della poesia, dell’anima piegata su se stessa per recuperare le forze nello slancio futuro, quello del domani al sorgere del sole per una nuova avventura.
Il creato esercita il proprio potere sulla materia per renderla utile, bella, desiderabile. La materia che ne ricava sovente è matrigna, causa dell’orrido e di angoscia. E’ l’unità della materia nei suoi contrari. Al bello corrisponde il suo opposto e al positivo construens, costruttivo, il rovescio destruens, distruttivo, alla luce che è vita risponde la tenebra che è baratro.
La materia produce l’uomo e quello che serve all’uomo per sopravvivere. A partire dal pensiero che, facendosi intelligenza, dà vita al libero arbitrio, il massimo della libertà concessa dal creato. Gli uomini preferiscono spesso le tenebre alla luce . Ma è della luce che la materia ha bisogno per generare e rinascere ogni volta. La vegetazione appartiene a questo orizzonte di creazione necessaria. Senza vegetazione non esiste la vita, bensì è il vuoto a prendere il sopravvento. Sahara in arabo significa vuoto e anche deserto, appunto: الصحراء, sahrā.
Al vuoto si contrappone il pieno, perché tutte le cose hanno il loro opposto. A Dio creatore, secondo la concezione religiosa monoteista, si contrappone il diavolo, come a contrastare il bene si addensa il male. E’ la ragione del divenire, ovvero procedere in ragione degli opposti che fanno parte dell’unità dell’essere.
Il re della vegetazione è l’albero, come il leone lo è per gli animali selvaggi e l’aquila per i volatili. L’albero, nelle sue infinite variazioni, è l’esempio della evoluzione dell’universo, essendo apparso sulla Terra miliardi di anni fa. Probabilmente, proprio per questo riesce a trasmettere questa sensazione di sicurezza e di forza nell’uomo che per la sua natura costitutiva, si considera “organismo” superiore per eccellenza. Nel deserto non ci sono alberi. Eppure ci sono altre forme di vita. Nulla è totalizzante dell’universo.
L’albero è la pietra miliare della storia del Pianeta. Di conseguenza, è il testimone del passaggio dell’uomo sulla Terra.
I fiori sono, al contrario, precari, stagionali, effimeri. Trasmettono la temporaneità e la caducità delle sensazioni, degli stati d’animo, dei sentimenti, degli affetti. Lo stesso ragionamento vale per gli ortaggi, piante vegetali per eccellenza la cui presenza è strettamente connessa al clima e alla natura del suolo, oltre che al gusto, alla necessità alimentare, al godimento materiale. Gli alberi sono atemporali, esprimono la longevità dell’essere e il trascorrere del tempo, la durevolezza della materia e l’alternarsi delle stagioni. Danno il senso del divenire. Sono un testimone dell’esistenza. Qualche volta sono dei patriarchi. Raccontano secoli e secoli i vita, con la chioma fronzuta o disseccata, con il tronco scavato e scarnificato, con le radici contorte e ferite. Gli alberi in genere sopravvivono all’uomo e la loro presenza è un incitamento a vivere, costituiscono un esercizio di coerenza naturale. Quando un albero si ammala e poi si riprende, noi stessi ci sentiamo rinascere, avvertiamo di stare meglio, di avere evitato un pericolo, di essere riusciti a superare un momento difficile.
Quando un albero muore, qualcosa di noi se ne va, viene meno un elemento interiore, una energia si affievolisce. Ecco, quello è il segno del tempo che passa e vince la materia. In quel caso, a sopravvivere è l’uomo, deprivato di un tassello del proprio mosaico interiore. Ma in generale l’albero sopravvive all’uomo e quindi sappiamo di lasciare, morendo, un testimone del proprio passaggio nel creato che, a modo proprio, potrà raccontarlo, forse con lo stormire delle fronde, con la cacciata di un pollone, con un risveglio vegetativo anticipato e una fioritura copiosa.
Il linguaggio degli alberi non è una scienza, ma ciascuno di noi che ama gli alberi e parla con loro, sa distinguere il comportamento delle piante. La botanica ci può soccorrere, ma non riuscirà a spiegare tutto. Il mistero della percezione umana permane in tutta la sua evidenza. Se l’attribuzione di un determinato fenomeno vegetale è un’illusione e resterà tale, resta pur sempre un afflato poetico e un sentimento vitale che persisterà anche dopo la morte nei sopravvissuti a noi vicini che lo hanno compreso.
Un'altra immagine del platano durante una misurazione. La sua circonferenza è di quasi 15 metri
L’albero resta come un monumento celebrativo, un antropomorfo votivo, un’ara della memoria. Parlerà ancora a quelli che verranno e racconterà di un tempo che non tornerà mai più. Con questo sentimento nobile si sta costruendo una cultura dei patriarchi vegetali. L’Italia ha un patrimonio esteso ed interessante. Ma a richiamare l’attenzione in questo ultimo periodo è stato il platano di Curinga, cittadina calabrese che s’incastona tra il Tirreno e lo Ionio, sfruttando il clima migliore di entrambi i mari. Questo “Gigante buono”, come viene definito dagli abitanti della cittadina calabrese che ha un passato plurimillenario, è stato ignorato per lunghi secoli. Ma nonostante ciò, è riuscito a giungere fino ai nostri giorni. Si trova immerso in un bosco di vasta estensione, a ridosso delle rovine dell’eremo di Sant’Elia il Vecchio, attribuito al IX secolo, opera di monaci basiliani. Secondo la tradizione, sarebbe stato un cenobita a piantare questo platano che ha le caratteristiche del platano orientalis. Non si riesce a stabilire con esattezza la sua età, non disponendo di strumenti stratigrafici, ma si presume possa risalire all’anno Mille o subito dopo, al tempo dell’insediamento di Roberto il Guiscardo. Secolo più o meno non ha molta importanza. Il platano è un racconto sulla storia di quella parte d’Italia così ricca di fascino, passando dai Normanni agli Svevi, dagli Angioini agli Aragonesi, dagli Spagnoli a Giuseppe Garibaldi che ha donato il regno di Napoli al regno d’Italia appena costituito. Ma attraverso il cenobita basiliano, ci potrebbe parlare nel grecanico dei bizantini, nel greco nobile di Omero, Saffo, Pitagora, Nosside, nel latino di Cassiodoro e nel goto longobardo prima della furia saracena.
Ma di che si tratta? Immaginiamo un gigante biblico o omerico, scheletrico e curvo su stesso, magari incapace di stare in piedi per cui è costretto a restare sdraiato, con le braccia protese al cielo per cercare Zeus o Jehovah. Ecco, il platano di Curinga che si sorge nel bosco ha un tronco di 14, 75 metri, un’altezza di 31,50 metri contando il ramo più alto; la sua particolarità è che è totalmente cavo, ovvero vuoto all’interno. Il legno interno è stato completamente divorato dal tempo, dalle intemperie, dalle affezioni patogene, dall’incuria dell’uomo, per cui è la spessa corteccia e il mollame sottostante che lo sorreggono. Nella sua cavità da secoli trovano riparo dalle intemperie pastori, contadini, boscaioli, carbonai, mentre una moda si è diffusa negli ultimi tempi, non so quanto opportuna per la sopravvivenza del patriarca che ha bisogno di amorevoli cure e non di attenzioni interessate: radunarsi nel tardo pomeriggio nella sua “grotta” per fotografare il tramonto sul Tirreno e godere della vista di Stromboli, Strambolicchio, fino al profilo di Lipari sullo sfondo.
Ma in Calabria non c’è soltanto il platano di Curinga che merita attenzione, precisa il prof. Francesco Santopolo. Come gli ulivi di Zambrone che risalirebbero al tempo dei Normanni.
Uno degli antichissimi ulivi di Zambrone
E anche nel resto d’Italia ci sono esempi magnifici, come l’Olivone di Canneto sabino che sarebbe stato piantato dai monaci benedettini dell’abbazia imperiale di Farfa all’inizio del XIII secolo. In questo caso si è giunti addirittura a dover pagare il biglietto per vedere l’albero, anche se dalle sue drupe si ricava ancora oggi un ottimo olio. Per non parlare di querce il cui primato è da attribuire alla “quercia del Tasso”, ovvero alla pianta sulla salita del Gianicolo a Roma dove il poeta Torquato Tasso trascorreva interi pomeriggi meditando e poetando nella seconda metà del XVI secolo. Purtroppo, nonostante gli sforzi di mantenimento in vita, la quercia è priva di fogliame. Secca, si dice. Ci sono il tronco e qualche ramo a ricordare il poeta.
Arthur John Strutt, Quercia del Tasso, olio su tela,
109,5 x 94,5 cm, 1843, Museo di Roma
Oppure i cipressi e i platani di Villa d’Este a Tivoli che risalgono alla seconda metà del XVI secolo, ancora guardiani delle fontane e dello spettacolo meraviglioso della villa all’italiana per eccellenza.
E si potrebbe continuare a lungo. Sorge una domanda: è giusto l’accanimento botanico, di tipo terapeutico in questo caso? Gli ambientalisti sostengono che le piante vanno trattate come essere viventi, il cui ciclo naturale deve essere rispettato. Gli storici del paesaggio e gli studiosi di storia e di tradizioni culturali sostengono che una pianta patriarcale debba essere custodita come testimonianza dello scorrere del tempo e del suo essere in sé. Quindi, un patrimonio culturale da custodire e trasmettere alle generazioni future.
E se si trattasse di una moda, tra le tante?
Lasciamo che i patriarchi vivano il più a lungo possibile. E che possano essere anche oggetto di concorsi internazionali, come il caso di quello che vede protagonista il platano di Curinga. Auguri!
Roma, 27 febbraio 2021
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