di Emilio Lastrucci
Questo breve saggio costituisce un contributo essenziale all'analisi della poetica di Scotellaro, basato su alcuni spunti originali e propedeutico alla stesura di un lavoro più sistematico ed approfondito in corso di elaborazione
Premessa
L’opera di Scotellaro si colloca storicamente a circa mezzo secolo dalla seconda rivoluzione industriale e pressoché un decennio prima di quel periodo nel quale, nel nostro Paese, si assiste al fenomeno del cosiddetto “miracolo economico”. Contrassegna, cioè, una fase di massima divaricazione, sul piano socio-storico-culturale, fra due realtà nettamente eterogenee, cui corrispondono due chiaramente distinte – e per molti aspetti contrapposte –visioni del mondo: quella del contesto rurale della civiltà contadina e quella urbano-industriale della cultura operaia.
L’intera esperienza di Scotellaro e la diretta espressione poietica che da essa prende vita, di eccelso valore letterario e tensione innovatrice, nella sua opera poetica rivela in forma limpidissima la propria matrice agricolo-pastorale, consolidandosi e a un tempo raffinandosi e sublimandosi, come cercherò di illustrare, in manifestazione e rivendicazione di questa nella forma di matrice identitaria. Entro queste coordinate storiche ed etnico-antropologiche – le quali ultime sul piano culturale si esprimono attraverso i processi trasmissivi della tradizione orale, cioè nel crogiuolo della cultura popolare, contrapposto a quello della cultura accademico-scolastica “ufficiale” - va necessariamente collocata una qualsivoglia lettura della poetica scotellariana.
Ma quali sono, in estrema sintesi, le fonti di ispirazione della genesi e degli sviluppi creativi dell’opera di Scotellaro, le correnti artistico-culturali e i movimenti ideali che hanno esercitato la maggiore influenza sulla formazione di questo autore e sull’evoluzione della sua produzione nell’arco della sua breve esistenza?
Una curiosa fotografia del poeta nella sua Basilicata
Dimensione idilliaco-pastorale, ermetismo e realismo nella poetica di Rocco Scotellaro
Per ricondurre, intanto, l’opera poetica di Scotellaro ad un qualche modello classico, ritengo che essa attinga segnatamente – o per lo meno risulti in qualche misura significativa maggiormente ricollegabile – agli Idilli di Teocrito, piuttosto che alle Bucoliche virgiliane, considerando comunque che, com’è noto, il secondo trasse anch’egli profonda ispirazione dal primo, il quale può essere assunto perciò, in qualche modo, a modello archetipico. Il contesto della realtà contadina dell’entroterra appenninico della Basilicata e della provincia materana – dotate di un patrimonio di tradizioni e di espressioni della cultura popolare la cui ricchezza, complessità e valore sono stati esplorati alquanto in profondità attraverso le ricerche di Ernesto De Martino e di altri etnografi, etno-musicologi ed antropologi culturali appartenenti alla sua scuola nel periodo immediatamente successivo alla morte di Scotellaro – si configura, insomma, nell’opera di Scotellaro, come l’Arcadia, un ambiente, cioè, paradossalmente privilegiato, pregno di atmosfere idilliache, quantunque nel medesimo tempo “spettacolo della vergogna” (nella narrazione sviluppata nel Cristo di Levi), contesto socio-economico nel quale l’arretratezza delle condizioni di vita e del progresso civile aveva raggiunto i livelli più drammatici ed esasperati.
Atmosfere idilliache, in effetti, sono chiaramente percepibili, diffusamente, nei componimenti di Scotellaro, anche se marcano più definitamente quelli giovanili. Il componimento che segue, risalente al periodo adolescenziale, appare quantomai emblematico sotto tale rispetto.
Lucania
M’accompagna lo zirlio dei grilli
e il suono del campano al collo
d’un’inquieta capretta.
Il vento mi fascia
di sottilissimi nastri d’argento
e là, nell’ombra delle nubi, sperduto
giace in frantumi un paesetto lucano.
(1940)
Sorprende, in questo componimento, l’estrema maturità dell’autore, appena diciassettenne, sul piano stilistico, della tensione lirica e dell’efficacia evocativa del verso. L’intera produzione di questo periodo, raccolta nella prima silloge postuma È fatto giorno, pur mostrando, in taluni casi, una struttura ancora parzialmente acerba sul piano stilistico e tendenzialmente ingenua su quello contenutistico, pone ciononostante in risalto già, per lo meno in nuce, alcuni elementi che risultano precipui della cifra poetica del nostro autore.
Già a partire da questa fase, tuttavia, le atmosfere idilliache appaiono, con ogni evidenza, profondamente imbevute della letteratura realista (in sintonia con gli esordi del neo-realismo e addirittura in anticipo su alcuni tratti di questo), influenza che produce quale risultato quello di una “purificazione” prosodica, vale a dire di un alleggerimento degli artifizi retorici e dell’inquadramento nei canoni propri dei modelli più consolidati del verso classico (e dei suoi moderni sviluppi dal neo-classicismo fino al tardo romanticismo e al decadentismo e soprattutto alla sue derive attraverso alcune correnti poetiche novecentesche come, ad esempio, quella dannunziana), inclusi i vincoli della struttura legati alla rima.
Ma questo processo di purificazione e di “deidratazione”, per dir così, del verso, rappresenta, com’è noto, il carattere costitutivo della corrente poetica che aveva già da un paio di decenni trovato piena affermazione e contrassegna ad un dipresso la fase anteriore della storia letteraria a quella neo-realista, vale a dire l’ermetismo. Non è impresa complessa quella che consiste nel porre in risalto nella massima parte dei componimenti di Scotellaro (complessivamente, com’è noto, oltre un centinaio) gli altrettanto evidenti riverberi della poesia ermetica, segnatamente nella fase più matura di quest’ultima. L’adozione del verso libero e lo svincolamento da canoni metrici rigidi (il cui scardinamento non implica, naturalmente, la rinuncia all’attenzione al ritmo ed alla “musicalità” del verso, rimodellati però – con esiti assolutamente e notoriamente straordinari nei massimi esponenti della poesia ermetica – in ragione dell’essenzialità di quest’ultimo), propria dell’ermetismo, esplicita chiaramente l’assimilazione, se non una vera e propria, più o meno dichiarata, adesione, ai moduli propri di questo movimento.
Questi tre caratteri ispiratori portanti della poetica di Scotellaro (Arcadia, ermetismo e realismo) trovano la loro sintesi in una mirabile combinazione e contaminazione di esigenze espressive, le quali consentono al nostro autore di pervenire allo straordinario esito di elevare il sofferto vissuto quotidiano di uomini e donne illetterati al prestigio della massima tradizione poetico-letteraria.
Tale sintesi rivela le proprie “spie stilistiche” (per dirla con Leo Spitzer e con Benvenuto Terracini1), nel verseggiare estremamente asciutto, nonché in un lessico e in una sintassi decisamente scarni, che permettono, appunto, di concedere direttamente voce ai contadini stessi2. Sul piano lessicale, la “nomenclatura” caratteristica di Scotellaro si compone essenzialmente dei lemmi della parlata locale che hanno per referenti oggetti, strumenti, specie botaniche e zoologiche, prodotti culinari, ecc. che pertengono strettamente alla cultura materiale, nonché di quelli che denotano usanze, rituali (di matrice tanto religiosa quanto magico-animistica), credenze e cerimoniali propri della cultura immateriale e dell’immaginario collettivo ed i quali mostrano radici profondissime e origini remotissime nel contesto regionale lucano.
La scelta fondamentale operata da Scotellaro sul piano del linguaggio poetico, tuttavia, consiste soprattutto nell’utilizzo del codice, che rifugge recisamente e programmaticamente la tentazione di orientarsi verso il dialetto (o la koinè definita dalla variante locale della lingua standard, che in quel periodo accennava appena ad affermarsi), per inserirsi di conseguenza nel filone della poesia vernacolare, e si mantiene invece saldamente ancorata alle espressioni più colte ed avanzate della lingua nazionale, consentendo in tal modo alla sua produzione poetica di acquisire un respiro, e perciò anche un impatto, universali, imprimendole la sua inconfondibile curvatura geo-antropologico-sociale piuttosto nella dimensione semantico-tematica, invece che, appunto, nella scelta di un codice che nell’uso corrente trova i suoi confini ben delimitati e quindi la sua portata comunicativa, inevitabilmente ridotta, in un areale decisamente ristretto.
Dimensioni descrittiva, narrativa e riflessiva nella poetica di Scotellaro
La poesia di Scotellaro ha carattere prevalentemente descrittivo (talora in alcuni componimenti, rivela altresì, in forma estremamente condensata, anche un respiro narrativo) e solo in misura molto rarefatta esibisce anche passaggi meditativi, ovvero una componente meditativa che segue quella descrittiva scaturendone, come nello schema più rappresentativo del romanticismo maturo, imposto essenzialmente dal Leopardi. Ciò è determinato da una scelta stilistica fondata sul servirsi dell’immagine in chiave evocativa, mirando a suscitare soprattutto la condivisione empatica di stati emotivi, e perciò sul delegare quasi interamente al lettore lo sviluppo di moti riflessivi e valutativi.
Dalle impressioni evocate dal verso, sempre terso ed asciutto, come già evidenziato, come le atmosfere campestri che richiama, insomma, si autogenerano in modo naturalissimo, in un animo adeguatamente sensibilizzato e teso all’ascolto, stimoli cogitativi che, qualora espressamente esplicitati dall’autore, rischierebbero di indirizzare l’opera poetica verso frontiere funzionaliste, dalle quali, anche, Scotellaro sembra chiaramente volersi allontanare. La pulsione del poeta, in ultima analisi, sembra chiaramente configurarsi e qualificarsi, in Scotellaro, come di natura eminentemente estetica, giammai esplicitamente critica, orientata alla denuncia, come si rinviene, per esempio in Pasolini.
Questi caratteri fondanti della poetica di Scotellaro (e che permangono sostanzialmente anche in quello che, come vedremo oltre, costituisce lo stadio epico-popolare della sua produzione) rendono, a giudizio di chi scrive, straordinariamente alto il valore della sua opera e notevolmente originale il modello stilistico cui egli dà fondamento.
Altro elemento – o ingrediente, se si preferisce – che traspare in diversi componimenti è quello della sensualità e della carnalità (ma non già propriamente quello amoroso, né tantomeno quello esplicitamente erotico, sviluppato, ad esempio, da Moravia e tematizzato da Calvino3), che si esprime soprattutto nel suo coniugarsi intimamente, sul piano simbolico-estetico, ad elementi della cultura materiale locale, come nel celebre componimento che segue.
È calda così la malva
È rimasto l’odore
della tua carne nel mio letto.
È calda così la malva
che ci teniamo ad essiccare
per i dolori dell’inverno.
(1948)
Protagonisti dei componimenti di Scotellaro sono soprattutto i braccianti, moltitudine di schiavi “comprati” per una giornata, ma anche i pastori, i mezzadri, gli artigiani e varie altre figure che formavano il sottoproletariato nei territori dell’entroterra lucano. A differenza che nell’inchiesta sulla condizione dei contadini del Sud, nei lavori poetici la voce dei contadini (termine nel quale occorre includere comprensivamente tutte le più specifiche categorie cui si è fatto poc’anzi richiamo) ha, naturalmente, carattere più anonimo e generalizzato: essi “parlano”, raccontano brani della loro esperienza di vita, attraverso la penna di Scotellaro, mediante la descrizione delle loro figure, il richiamo a stereotipi, proverbi e modi dire (forme costitutive della cultura orale), alle abitudini ed ai rituali in una forma vicina, per alcuni aspetti, al bozzetto fuciniano (con la fondamentale differenza che Fucini osserva la vita rurale in modo distaccato, da borghese cittadino e non già da membro integrato di quella comunità, mentre Scotellaro, pur uomo colto fra analfabeti, vi appartiene, come meglio vedremo oltre, a pieno titolo), ed anche, ovviamente, a quella delle novelle e dei romanzi di Verga (in cui, a differenza che in Scotellaro, il processo di immedesimazione con i personaggi risulta programmaticamente assente); un ulteriore accostamento può sicuramente essere mostrato con il racconto della vita dei cafoni, nutriti a pane e olio lampante, ammassati la notte nelle stalle, nell’esperienza giovanile rievocata da Giuseppe Di Vittorio.
Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, olio su tela 1898-1901
La presenza dei contadini nella poesia di Scotellaro si rivela essenzialmente sottoforma di collettivo socialmente identificato, di moltitudine oppressa e silenziosa ed il cui impulso a raccontarsi produce urla che risuonano nell’animo del poeta, il quale attraverso i suoi versi permette ad esse di risuonare ed essere ascoltate. La poesia funge in qualche modo, insomma, da “cassa di risonanza” del vissuto, della sofferenza e delle aspirazioni dei “dominati” e della loro ricchissima e straordinariamente coinvolgente tradizione culturale, che non ha sino a quel momento trovato vie di accesso alla cultura scritta.
E la poesia, quale forma più nobile e privilegiata di questo sotto-codice massimamente elaborato, spalanca una porta al mondo contadino per permettergli di fare ingresso a pieno titolo nella vita civile nell’”alba nuova” della fase storica di costruzione di una società democratica in cui Scotellaro intravede realizzarsi prospettive di sempre maggiore uguaglianza, emancipazione e giustizia sociale (prospettive di cui egli non poté divenire in prima persona protagonista a causa della sua precocissima scomparsa, nel 1953).
Dalla dimensione elegiaca a quella epica: fasi della produzione poetica di Scotellaro
Se si intendesse assecondare l’esigenza – manifestata da diversi interpreti della sua opera – di ricostruire un’evoluzione nella cifra poetica di Scotellaro, tramite una scansione in fasi della sua produzione, si potrebbe individuare una linea di sviluppo, quantunque non certo lineare, da una dimensione elegiaca, contrassegnata da una condizione sentimentale fondamentalmente malinconica, ad una epica, nella quale il “poeta contadino” si appropria di un uso del verso quale modalità espressiva altamente raffinata (e non già mero strumento) di un impegno volto al riscatto sociale.
Questo elemento trova sviluppo soprattutto attorno ad un nucleo concettuale espresso dalla metafora in cui il risorgere (che denota un processo graduale di cambiamento, e non tanto, quindi, l’insorgere, legato ad un anelito di ribellione orientato verso una prospettiva propriamente rivoluzionaria) è simbolicamente rappresentato dal nascere del sole. Questo elemento trova la sua compiuta manifestazione nel componimento L’alba è nuova, definito da Carlo Levi “la Marsigliese del movimento dei contadini”4.
Sempre nuova è l’alba
Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
Che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna
– l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra.
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.
(1948)
L’altro noto componimento, che offre peraltro il titolo alla prima raccolta di versi pubblicata (nel 1954 da Mondadori), nel quale la metafora dell’alba esprime il senso di una cesura epocale, che segna l’avvento di un nuovo ordine politico e sociale, e quindi il senso di una rinascita, è rappresentato da E’ fatto giorno.
È fatto giorno
È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi
con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.
Le lepri si sono ritirate e i galli cantano,
ritorna la faccia di mia madre al focolare.
Un’evoluzione da un primo Scotellaro, ancora sospinto dalle passioni giovanili, ed un secondo, più maturo, volto verso una dimensione di impegno attivo (passaggio che coincide soprattutto con la conclusione del secondo conflitto mondiale) è tracciata anche da Levi.
La poesia di Rocco Scotellaro, che oggi soltanto, lui morto, qui appare nella sua commovente e originale bellezza, è legata alla sua vita, che essa racconta ed esprime; e non tanto alle vicende e agli avvenimenti, quanto alla qualità, alla condizione, allo sviluppo singolare ed esemplare di quella, che nei versi ha trovato, con la rara misura del genio, la sua forma più diretta.
Poiché Rocco Scotellaro è una di quelle nature per cui l’espressione poetica (il linguaggio del verso, del ritmo, ecc.) è la prima forma d’espressione, la più vicina al sentimento e al moto profondo della vita, la più immediata. Verrà poi, costruita su quei ritmi e modi naturali dell’animo, su quel denso e già chiaro primo mondo poetico, la prosa, più complessa e adulta.5
Le fasi della produzione poetica di Scotellaro in cui predomina l’elemento estetico-melanconico, vanno sicuramente ricondotte, come è stato fatto, alle vicende biografiche che hanno segnato più in profondità l’esperienza vissuta di Scotellaro ed hanno prodotto una condizione dolorosa e di intenso avvilimento: la morte del padre, la vicenda giudiziaria, l’esperienza del carcere e la disillusione che seguì all’esperienza politico-amministrativa dopo le dimissioni dalla carica di sindaco.
La fase che potremmo definire dell’”epica popolare” è viceversa legata ai momenti della sua vita nei quali l’aspirazione al riscatto sociale della classe contadina e l’orgoglio di appartenervi – in ragione non esclusivamente delle proprie origini, bensì di una connotazione identitaria immanente ed ineludibile –, trova completa maturazione e viene pertanto ad assumere posizione centrale nella sua personalità intellettuale e nel suo impegno civile.
Tale sviluppo si concretizza, possiamo dire, in una transizione da un modello del verseggiare di carattere squisitamente evocativo ad un nuovo che assume un aspetto, invece, fortemente invocativo. Questi componimenti si sostanziano, infatti, in un richiamo ai contadini in favore di un impeto al protagonismo in un processo di trasformazione storica cruciale (nella fase che va dalla fondazione della Repubblica ai primi anni cinquanta, vale a dire nella temperie ideologico-politica e culturale del secondo dopoguerra e degli anni della Ricostruzione), protagonismo che si fonda, necessariamente, su una preliminare o contestuale presa di coscienza, la quale ultima deve mirare a tradursi a sua volta nella partecipazione attiva alla vita civile e nell’assunzione pienamente consapevole di un ruolo sempre più determinante nello sviluppo economico-sociale e nell’avanzare del progresso civile e culturale.
Questa lettura appare sostanzialmente coerente con quella di Carlo Levi e sicuramente accompagna la fase dell’attività svolta dal nostro autore quale militante del partito socialista e marcatamente durante lo svolgimento del suo incarico istituzionale come sindaco del suo paese d’origine.
Nelle fasi dell’impegno attivo l’immedesimazione empatica e la rivendicazione dell’appartenenza al mondo contadino si traduce in vero e proprio orgoglio dell’appartenenza. Tale elemento si esplicita emblematicamente in alcuni componimenti risalenti al periodo della sua attività istituzionale locale, fra cui il breve componimento La mia bella patria.
La mia bella patria
Io sono un filo d’erba,
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.
(1949)
Nella meravigliosa metafora del filo d’erba e del suo seme si condensa, intanto, un’idea di patria che determina una decisa frattura con l’ideologia e la retorica dominante, idea senz’altro accostabile a quella pressoché coeva espressa da Lorenzo Milani nella celebre Lettera ai Cappellani militari:
“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri…
In secondo luogo, si esprime decisamente attraverso questi versi la piena consapevolezza di esercitare un ruolo di guida nel processo di emancipazione delle classi subalterne, di “intellettuale organico” (se si intendesse interpretare il concetto in termini gramsciani), il quale effonde semi che hanno possibilità di germinare anche in luoghi distanti, permanendo tuttavia immutata la loro provenienza ed identità originaria.
Veduta di Tricarico (MT)
In effetti, l’attaccamento ai luoghi natii (per richiamare un tema decisamente stereotipato nella tradizione letteraria, considerata in una dimensione pressoché universale ed atemporale), che si esprime in Scotellaro nella dimensione che abbiamo detto idilliaca o arcadica, acquisisce una tale intensità da far assurgere gli ambienti naturali del suo abituale vissuto, oltre che a luoghi dello spirito e dell’immaginario, anche, più concretamente, ad habitat naturale dal quale, come ogni esemplare di qualunque altra specie stanziale, anche l’essere umano non riesce ad allontanarsi senza che si generi una condizione di insopportabile sofferenza e privazione.
Questo tema è sviluppato dal poeta lucano soprattutto nel momento del suo trasferimento nella città, ai cui spazi ed al cui clima, naturale come sociale, egli non riesce in alcun modo ad adattarsi, come una pianta sradicata dalla sua dimora naturale o un animale sottratto al proprio elemento vitale. E non si tratta semplicemente di una condizione d’animo che si esprime attraverso la nostalgia, bensì di una condizione molto più complessa e che si traduce in un più elevato afflato lirico.
Passaggio alla città
Ho perduto la schiavitù contadina,
non mi farò più un bicchiere contento,
ho perduto la mia libertà.
Città del lungo esilio
di silenzio in un punto bianco dei boati,
devo contare il mio tempo
con le corse dei tram,
devo disfare i miei bagagli chiusi,
regolare il mio pianto, il mio sorriso.
Addio, come addio? distese ginestre,
spalle larghe dei boschi
che rompete la faccia azzurra del cielo,
querce e cerri affratellati nel vento,
pecore attorno al pastore che dorme,
terra gialla e rapata
che sei la donna che ha partorito,
e i fratelli miei e le case dove stanno
e i sentieri dove vanno come rondini
e le donne e mamma mia,
addio, come posso dirvi addio?
Ho perduto la mia libertà:
nella fiera di luglio, calda che l’aria
non faceva passare appena le parole,
due mercanti mi hanno comprato,
uno trasse le lire e l’altro mi visitò.
Ho perduto la schiavitù contadina
dei cieli carichi, delle querce,
della terra gialla e rapata.
La città mi apparve la notte
dopo tutto un giorno
che il treno aveva singhiozzato,
e non c’era la nostra luna,
e non c’era la tavola nera della notte
e i monti s’erano persi lungo la strada.
Ma l’aspetto di maggiore forza di questo componimento consiste, senza alcun dubbio, nell’esplicitazione, perdipiù reiterata, del paradosso che identifica la condizione di schiavitù dei contadini con quella della loro libertà. Il senso di appartenenza, infatti, assume nella visione del mondo di Scotellaro una tale centralità da renderlo fondamento e condizione ineludibile del senso della libertà, anche ed addirittura laddove il contesto dell’appartenenza risulta quello di una falange di schiavi.
La schiavitù contadina
Il paradosso, per lo meno apparente, che consiste nell’identificare la schiavitù con la condizione originaria della libertà viene a configurarsi in tal modo quale nucleo concettuale centrale di tutta la poetica di Scotellaro. L’enucleazione ed il chiarimento di tale concetto consistono dunque nel rendere più perspicuo il senso dell’espressione “schiavitù contadina”.
Le testimonianze raccoglibili da numerosi contadini di Tricarico mostrano che l'idea della “schiavitù contadina” – locuzione utilizzata da molti degli abitanti di questi luoghi e tramandata attraverso la tradizione orale – fosse concepita come una condizione originaria della vita del contadino, legata all'imprevedibile e talora capriccioso alternarsi degli eventi atmosferici e ai mutamenti climatici determinati dal ritmo dei cicli stagionali, che condizionavano in misura sovente determinante gli esiti del raccolto e pertanto le condizioni della sopravvivenza. La libertà del contadino, allora, consiste proprio nel vivere questa condizione di incertezza dettata dall'assoggettamento alle leggi della natura.
La schiavitù dei braccianti (venduti e comprati alla stessa guisa degli animali da lavoro), retaggio storico della servitù della gleba, si configura, viceversa, come la forma di schiavitù consistente nell'assoggettamento alla legge definita dagli interessi dei padroni ed è quindi la forma di schiavitù da cui emanciparsi, attraverso la riforma agraria, finalizzata a restituire ai contadini la proprietà delle loro terre, e ricondurli in tal modo a quella forma di schiavitù originaria in cui consiste la condizione essenziale, pur paradossale, della loro libertà.
L’emigrazione, scelta per molti inevitabile (incluso, anche se per diverse ragioni, lo stesso Scotellaro), al fine di sfuggire all’intollerabile e spesso invivibile schiavitù del bracciantato, d’altronde, svincola il contadino da quest’ultima forma di schiavitù, estirpando le sue radici, immerse profondamente da generazioni nella sua terra, per sottoporlo però ad una diversa forma di schiavitù, ancora più insopportabile: quella del lavoro salariato in un qualche comparto industriale, intimamente connessa all’ancor più invivibile vita nel contesto metropolitano, lontano dalla condizione di beatitudine agreste (l’Arcadia) segnato dalle tranquille cadenze legate ai ritmi della giornata e delle stagioni. L’emigrazione, di conseguenza, non rappresenta affatto un viatico verso l’emancipazione dalla schiavitù della gleba, bensì solo la transizione verso una forma ancor più costrittiva di schiavitù; l’emancipazione, la nuova alba, è resa possibile esclusivamente dall’esproprio dei latifondi e la restituzione delle terre a coloro che la terra lavorano: la riappropriazione della loro terra coincide con la riappropriazione della loro sola e autentica libertà.
In tale ultimo nucleo tematico possiamo forse rinvenire l’elemento più originale, personalissimo, della poetica scotellariana, che permette, a giudizio di chi scrive, di annoverare questo autore, malgrado la brevità della sua esistenza, nel consesso dei grandi poeti italiani del ventesimo secolo.
© marzo 2023
Note:
- Cfr. R. L. Spitzer, Critica stilistica e semantica storica, ed. it. Bari, Laterza, 1966; B. Terracini, Analisi stilistica. Teoria, storia, problemi, Milano: Feltrinelli, 1966.
- Questo intento ebbe il suo esito più esplicito e dichiarato nell’inchiesta, di impianto sociologico, condotta da Scotellaro a partire dal 1950 e rimasta incompiuta, sulla condizione dei contadini, tramite la realizzazione di interviste ad alcuni lavoratori agricoli ed artigiani dell’area tricaricese, raccolte nel volume Contadini del Sud.
- Sul controverso rapporto di Calvino con la sessualità si è andato sviluppando un vivace ed interessantissimo dibattito. Mi preme qui, nel respiro di un breve saggio con intenti preparatori a studi più sistematici ed approfonditi, nei quali mi propongo di impegnarmi nell’immediata prospettiva, solo accennare all’interesse che rivestirebbe un confronto fra l’opera di Calvino e quella di Scotellaro. Il primo, in estrema sintesi, descrive una parabola fra un atteggiamento di pudicizia, interpretato da diversi studiosi quale espressione di una sostanziale misoginia, nel medesimo periodo nel quale perorava in alcuni interventi critici la causa di scrittori che utilizzavano modalità molto esplicite di rappresentazione dell’amore carnale, ad una fase nella quale egli stesso lo rappresenta, in forme però notevolmente raffinate e rarefatte (all’insegna di quella “leggerezza” che egli concepiva quale virtù fondante dello stile narrativo), prevalentemente in Se una notte d’inverno un viaggiatore; il secondo, in diversi luoghi della sua produzione poetica, enuclea e rappresenta esperienze erotiche in forma estremamente sciolta da vincoli morali, pudore e reticenze o “rossori”, servendosi generalmente di forme allusive e metaforiche, ed esprimendo quindi la passionalità in modi e con risultati alquanto simili a quelli del Calvino più maturo, conferendo all’espressione eleganza e considerevole valore lirico.
- Levi, com’è noto, ha contribuito decisivamente alla conoscenza diffusa e alla promozione dell’intera opera di Scotellaro e ne ha fornito la prima essenziale lettura critica. Decisiva rilevanza rivestono, a tal proposito, le presentazioni della prima raccolta È fatto giorno e dell’opera autobiografica di Scotellaro, al pari delle altre opere pubblicate entrambe postume, nel periodo immediatamente successivo alla sua prematura scomparsa: : C. Levi, Prefazione a R. Scotellaro, È fatto giorno, Milano, Mondadori, 1954; C. Levi, Prefazione a R. Scotellaro, L’uva puttanella. I contadini del Sud, Bari, Laterza, 1955.
- C. Levi, Prefazione a È fatto giorno, cit.