6 agosto 2024
di Agostino Bagnato

ENORME SUCCESSO A CARIA DELLA SAGRA DELLA SUJACA, APPUNTAMENTO ENAGASTRONOMICO E STORICO CHE COINVOLGE L'INTERA POPOLAZIONE DEL TERRITORIO


Da quanto tempo vengono coltivati i fagioli sull'altopiano del Poro? Da tempo immemorabile questo legume, di varietà cannellino, rende ricca la mensa degli abitanti di Caria e di altri abitanti del Poro.
Merito di questo terreno fertile che, dopo avere concesso un ricco raccolto di fieno e di cereali, a settembre offre un banchetto a base di questi preziosi legumi. Ovali, bianchi, dalla buccia sottile ma consistente, dalla polpa morbida, cremosa e saporita. Oscuro è il termine Sujaca, sicuramente dialettale della comunità di Caria, che indica l'insieme dei fagioli, la massa disponibile in quel momento. Come si sia formato resta un altro mistero. L'origine della varietà coltivata sul Poro è quella denominata Murisca, introdotta nell'Ottocento. All'inizio del Novecento è stata introdotta la coltivazione della varietà Cannellina. A partire dagli anni Trenta del secolo scorso è stata avviata la coltivazione del Buriotto, chiamato Sujaca a burro, di forma tondeggiante.



La coltivazione è un rito di sapienza agronomica e botanica vegetale, a cominciare dalla semina, un seme dopo l'altro nel solco tracciato dall'altro di legno con il piantatore rigorosamente di legno, chiamato "piruni". La terra naturalmente fresca e sciolta, la memorabile "pija", la pilla di origine vulcanica, alimentata dai depositi di polveri trasportate dai venti provenienti dal mare dove l'Etna, Stromboli e gli altri vulcani eolii la fanno da padroni, innesca il miracolo della rapida germogliatura. Nessuna irrigazione, solo attenta custodia da aggressioni di patogeni vegetali. E poi raccolta a mano, sdradicando la pianta, compotandone essiccazione e poi la battitura con tridente preferibilmente di legno o un bastone e a colpi moderati per evitare di rompere il candido frutto che brilla tra la pula come un sorriso pieno di denti amorosi.
Se necessario, i fagioli si lasciano all'aria aperta per qualche giorno per ostacolare che riprenda il processo naturale di germogliare. In sacchi di tela di juta si conservano in luogo asciutto. Chi produce oltre il proprio fabbisogno, vende i fagioli a prezzo contrattato. Il vantaggio consiste nella sicura originalità, qualità e chilometro zero. Una vera festa.


La cottura

Il modo di cuocere i fagioli è molto semplice: tutto dipende dall'organizzazione domestica. Intanto la pignatta di argilla cotta, ovvero terracotta possibilmente manifattura artigianale di Monte Poro. I fagioli sono posti a cuocere a fuoco lento sulla brace di legna di castagno, ulivo o di quercia, con un peperone rosso secco che fornisce aroma inconfondibile. La pignatta, dotata di due manici, va accostata alla brace e spostata diverse volte per avere una cottura uniforme. Sobollire vuol dire conservare la buccia integra e salvaguardare la consistenza della polpa. La brace è apprestata alla bocca del forno a legna o del camino con tiraggio lento.
Servire in tavola su scodella di terracotta o di ceramica con condimento di olio di oliva e contorno a piacimento di olive in salamoia e peperoni arrosto spellati e spezzati a mano. Una vera e propria magia!
Consumare con pane integrale cotto con forno a legna. Oppure pane biscotto tradizionale appena inumidito. Accompagnare con vino fresco ricavato da uve Magliocco e altre varietà locali.

Pane e 'Nduja, tipici della festa

Fino alla metà degli anni Settanta del XX secolo il rito della cucina di fagioli era poco considerato. Lo spopolamento delle campagne aveva reso meno frequente il consumo di questo eccellente frutto della terra. Per coloro che erano emigrati al Centro nord, agosto era il tempo del ritorno a casa con la famiglia, magari i parenti aggiunti, venuti in Calabria per via del mare e del riposo. Caria si rianima e le case risuonano di voci estranee. I fagioli sono il linguaggio della tradizione con 'nduja, soppressata, qualche superstite guanciale di maiale nella sugna, il mitico "maccularu" dell'infanzia e della giovinezza della popolazione di Caria e del Poro.
Molti dei "restanti" prestano la propria esperienza per apprestare tavolate, magari sull'aia o nel cortile di casa. E il rito della convivialità si rinnova e coinvolge la generazione sopraggiunta, nata e cresciuta nei casermoni delle grandi città del Centro nord.
A qualcuno viene in mente di onorare l'umile legume con una festa dedicata: una ricorrenza pagana come si vanno diffondendo per celebrare la tradizione e la biodiversità. Una giornata di orgoglio identitario che onori, attraverso il consumo del fagiolo di Caria, della sujaca appunto, cannellino paesano o di burro, cotto secondo la tradizione, il lavoro agricolo, la pazienza e la sapienza della coltivazione e poi de raccolto, della conservazione e infine della cottura, ultimo atto di un viaggio nella magica campagna di Caria e del Poro.


Una foto della festa dello scorso anno

Nasce così la Sagra della Sujaca. È il 1978. Non è mai passato un anno senza la festa a ridosso del Castello Galluppi, tranne l'infausto tempo della pandemia.
In cosa consiste il segreto di così evidente successo?
Trasformare una ricorrenza laica in una festa dell'intera comunità. Non il semplice comitato organizzatore che provvede a tutto, raccoglie i fondi, ottenere i permessi da parte delle autorità competenti, stipulare i contratti con gli artisti per i pochi spettacoli previsti, garantire le attrezzature per la festa, allestire con personale esterno il cibo per il pubblico, compreso pane, acqua, vino.
No. La formula vincente è stata coinvolgere tutte le famiglie a cuocere in casa i fagioli alla maniera tradizionale, portarli al punto di raccolta lasciando la pignatta con una etichetta identificativa per il successivo ritiro, contribuire alla preparazione dei piatti da servire in tavola con pane e cipolla, mescere il vino e poi raccogliere gli avanzi della cena in modo da lasciare tutto pulito e sistemato al termine della festa. Un rito collettivo.


I vicoli del paese si riempiono di bancarelle con prodotti di artigianato e specialità culinarie della zona

Un rito della "restanza", come direbbe il sociologo e antropologo calabrese Vito Teti. Una pratica di comunità che resiste e rilancia il senso collettivo dell'operare, dello sperimentare aggregazioni originali, modi inediti di stare insieme e di lavorare.


Caria e una veduta del mare sottostante

Appare un gioco, certo; ma prevale sul gioco il concetto di responsabilità. Chi frequenta la sagra e si ferma a consumare un piatto di fagioli paga il prezzo richiesto, esigendo un servizio adeguato. Ecco che un divertimento diventa un impegno che rafforza il senso del dovere verso sé stessi e la collettività.
La Sagra del 2024 è giunta alla 46ma edizione. Resta la stessa formula, carica di attesa perché la manifestazione è ricca di contenuti.
È  stato un successo. Di cui andare orgogliosi ancora una volta. Merito dei "restanti", gli abitanti di Caria che hanno continuato a credere nella comunità locale che perpetuano attraverso la Sagra della Sujaca il presidio del territorio che produce cultura e civiltà.

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