di Ludovico Pippan

Le prime cose che colpiscono quando si arriva in Malawi sono l’assenza di strade asfaltate e il numero impressionante di capre che girano libere dappertutto lungo stradine e sentieri in terra battuta, argillosa, la stessa con cui si preparano i mattoni per costruire piccole abitazioni, col tetto di paglia e di lamiera, in cui vivono quasi 20 milioni di persone. Si ha l’impressione di essere tornati indietro nel tempo di qualche migliaio di anni. Siamo lontani quasi 7 mila chilometri dall’Italia, ci troviamo nel cuore dell’Africa, in un piccolo Paese di cui non si parla quasi mai, privo di sbocchi sul mare e bagnato da un lago lungo 600 chilometri (il Malawi, chiamato anche Niassa) che separa il confine con Mozambico e Tanzania. Il terzo Paese con cui confina il Malawi è lo Zambia. Atterriamo il mattino presto nell’unico, piccolo aereoporto del Malawi. Si trova vicino alla capitale, Lilongwe, dove vive più di un milione di persone. Quasi tutti sono poverissimi: il reddito medio è forse il più basso del mondo, 1 dollaro e 20 centesimi al giorno per persona.

Ex colonia inglese, il Malawi è una repubblica dal 1964. Non ci sono industrie nè importanti risorse del sottosuolo. L’economia si basa sull’agricoltura. Si produce ed esporta tabacco, tè e zucchero. La popolazione si nutre soprattutto di mais, patate, fagioli, riso e maioca. Ogni tanto qualche gallina arricchisce di proteine la dieta. Ma la frutta non manca, soprattutto banane, mango, arachidi. Perchè siamo venuti in questo Paese dove c’è pochissimo turismo e tanta povertà? Accompagnamo, come volontari, una missione della onlus “Progetto Marco” che resterà qui una decina di giorni con il compito di riparare una quindicina di pozzi d’acqua costruiti in precedenti missioni, inaugurare una scuola e far visite oculistiche in alcuni villaggi per scoprire quali sono le patologie più frequenti; donare un paio di occhiali da vista facendo cambiare la vita a chi non ne ha mai avuti e donare occhiali da sole a quanti a causa delle polveri hanno sempre gli occhi irritati.

Alle 5 del mattino le strade sono già affollate. Le automobili sono rarissime; ogni tanto passa qualche camion che solleva enormi nuvole di polvere che riempiono i vestiti e gli occhi delle centinaia di perone che camminano portando pesi sulla testa o spingendo biciclette con carichi dalle dimensioni impressionanti. Portano ogni genere di cose: paglia, cataste di legna, sacchi di carbone, galline, patate, mais. Vediamo qualcuno pedalare velocemente portandosi dietro la moglie e uno o addirittura due bambini; un altro ha legato dietro una capra che emette grida strazianti ad ogni sobbalzo. Quasi tutti vanno al mercato, al centro del villaggio o accompagnano i bambini a scuola, ma la maggior parte dei bambini ci vanno da soli, i più grandi stringendo la mano ai più piccoli. Ai lati della strada tanta plastica (buste rotte, bottiglie, contenitori) che ogni tanto viene raccolta e bruciata, come la legna o il carbone con cui fanno il fuoco. “La plastica è un regalo dell’occidente – dice Salvatore Spinosa che da anni guida Progetto Marco – che anche qui toglie le poche risorse che ci sono dando ben poco in cambio. Una volta qui la plastica non c’era e si riciclava tutto. La gente non sa che bruciandola si diffondono veleni nell’aria”. Marco era il figlio di Salvatore. Aveva anche un sorellina, Edina, adottata a distanza in Malawi. Colpito ancora ragazzo da una malattia incurabile, Marco prima di morire chiese al padre di occuparsi della gente povera, gli abitanti del villaggio di Edina. Salvatore glielo promise e fece di questo impegno la ragione della sua vita. Si prodigò’ per raccogliere fondi e in assoluta trasparenza inizio’ costruendo pozzi d’acqua nei villaggi del Malawi, per poi estendere la sua attività ad altri Paesi (Congo, Ghana, Mozambico, Camerun, Zambia) costruendo anche scuole e ospedali in collaborazione anche con altre organizzazioni umanitarie. Tutto con i soldi delle donazioni e del 5 per mille “Se vuoi star bene - è il suo Motto - devi far star bene”.

Una delle cose che colpiscono di più, aggiunge, “è l’allegria, il sorriso di questa gente che ti ricambiano di ogni sforzo”. Salvatore non è più giovanissimo ma ogni volta che si inaugura o si ripara un pozzo, canta e balla con tutti, suscitando grande ilarità e creando enorme empatia. Rompe subito il ghiaccio, abbraccia persone di ogni età che quando anche dopo anni lo rivedono, accorrono a salutalo con grande affetto. “Ricevo da questa gente – spiega – molto più di quello che do loro”. È raro incontrare qualcuno che chiede del denaro. Nei villaggio le persone accettano volentieri qualsiasi piccolo dono, una maglietta, un paio di pantaloni, una gonna, una giacca, anche un indumento per neonati che daranno alla loro famiglia. Rispondono dicendo “zigomo, kwambiri, bambo” che nella loro lingua, il chechewa, significa “grazie infinite signore”.

Camminando per i villaggi si ha l’impressione che tutto si svolga “pangono pangono”, piano piano. Scopriamo la lentezza che all’inizio ci appare qualcosa di incomprensibile perchè veniamo da un mondo lontano molto più dei 7 mila chilometri che ci dividono da questa parte dell’Africa. Qua sono davvero in pochi a possedere un telefonino anche solo di prima generazione e non esistono ansia e depressione; non ci sono suicidi: le malattie di cui soffre la popolazione sono ben altre. Basti dire che quasi a tutti prima o poi vengono problemi, anche serissimi, alla vista. Salvatore Spinosa compra subito in un minuscolo negozio strapieno di pezzi di ricambio tubi, gommini e altri pezzi necessari per riparare i pozzi. A conti fatti in media con poco più’ di 300 dollari ha comprato tutti materiali, affittato la jeep e fatto fronte a tutti i costi necessari per riparare un pozzo, spendendo 10 volte di meno rispetto al costo di un’impresa locale. Durante la riparazione, che può essere lunga ore, le donne cantano e ballano. Alla fine ricambiano con un dono che può essere una gallina, una capra o soltanto alcuni mango quando il villaggio è ancora più povero degli altri. Poi ordinatamente si mettono in fila per ricevere a loro volta un piccolo dono.

Ringraziano con un inchino ed un sorriso. Festa grande anche in un villaggio dove “Progetto Marco” inaugura una scuola appena costruita. Di primo mattino centinaia di persone sono in attesa all’ombra di un enorme baobab. Aspettano noi? Non solo: poco dopo il nostro arrivo si alzano tutti e corrono verso un fuoristrada nero. Accompagnato da uno zelante cerimoniere scende un parlamentare che appartiene alla stessa formazione politica del Presidente dello Stato.

Le elezioni si svolgono ogni 4 anni e ci saranno a breve. Ecco così spiegata la sua presenza. Il nastro non lo taglieremo noi ma lui che si prenderà il merito di aver realizzato la scuola con il contributo di “Progetto Marco” che ringrazierà durante il lungo comizio e al quale chiederà’ di finanziare altri interventi per la comunità.

“Zicomo” grazie rispondererà subito dopo Salvatore Spinosa che di progetti ne ha in mente altri più utili più alla gente che all’immagine del politico. Agostino Trussardi, che conosce bene le usanze di questi luoghi se ne va prima che il parlamentare comincia a parlare. Agostino è un amico di Salvatore. Vive nel Malawi da molti anni. È nato 77 anni fa a Crusone, un paese della Val Seriana. Faceva di mestiere il tornitore per una grande impresa del bergamasco. La sua storia è simile a quella di Salvatore. Anche lui perse a causa di una grave malattia l’unico figlio che aveva e dopo pochi mesi perse anche la moglie, lasciandolo solo e disperato. “Impossibile accettare la morte di un figlio -ci dice - così all’inizio cominciai a bere. Era il 2004, ma capii subito che avrei dovuto trovare un altro modo per sopportare la sofferenza. Così decisi di cambiare radicalmente vita. Tornai in Malawi dove avevo lavorato per la mia azienda e dove mi trovavo quando mia moglie si ammalò. Convinsi un mio amico muratore ad accompagnarmi per realizzare un’impresa che allora sembrava impossibile: costruire un asilo in un luogo dove non c’era mai stato.

Imprenditori e amici mi aiutarono con finanziamenti”. Oggi nel villaggio di Toleza Agostino da da mangiare per tutto l’anno a 200 bambini. L’asilo si chiama “Chikondi Sokulu Yamkaka”, significa “scuola materna amore”. Adesso, spiega ancora Agostino “tutta la mia vita è qui.” Ricorda che tre bambini malati di malaria morirono perchè le loro mamme non avevano il denaro per curarli. Le cure possono costare meno di 2 dollari ma le loro mamme “li mettevano al sole, sperando che guarissero”. Così Agostino decise di costruire anche un dispensario medico dove oggi la gente va a curarsi. A Balaka e negli altri villaggi vicini più piccoli due imprenditori optometristi, Gianni Folletto e Alfonso Lisi, volontari della missione hanno trascorso molte ore della loro giornata a fare visite oculistiche per distribuire centinaia di occhiali da vista a chi ne ha bisogno. Gianni ha una motivazione simile a quelle di Salvatore e Agostino: la prematura scomparsa in un incidente stradale di un nipote che amava molto e che aveva solo 27 anni. Dice di essere laico ma di avere “una visione della vita non solo materiale. Non vado in chiesa – aggiunge – ma seguo un percorso spirituale. La natura ci parla e ci fa vedere le cose. Mi colpisce vedere tanti bambini che non hanno niente ma sorridono per cose semplici”. Alfonso Lisi aggiunge “ci sono molte persone che vogliono aiutare questa popolazione. Sono venuto qui per essere utile: è l’insegnamento che mi ha trasmesso mia madre. Le risorse vanno gestite in modo intelligente, non distribuendo denaro a pioggia, ma costruendo insieme, con umiltà e trasparenza verso i donatori”. Gianni e Alfonso visitano ogni giorno decine di persone.

Alcuni hanno problemi con la cornea, altri non vedono da vicino e quando vengono dati loro gli occhiali ringraziano con la gioia di chi ha appena assistito ad un miracolo; altri ancora anche giovani, hanno la cataratta. Qualche volta a tutti e due gli occhi. Nessuno li opererà e vedranno sempre meno. Gli occhiali da sole che ricevono in dono serviranno soltanto a proteggerli un po’ dalla polvere ma dovrebbero essere operati. Andiamo a parlare con il responsabile dell’ospedale di Bakala. Qua non ci sono medici specializzati.

Bisognarà farli venire in Italia ad imparare. E ci sono anche due primari oftalmici italiani disposti ad andare per qualche settimana nel Malawi ad insegnare. L’intervento può durare pochi minuti ma serve una camera operatoria pulita, con tutti i materiali necessari a cominciare dall’apposito kit. Insomma bisogna organizzare tutto. Ci penseranno i volontari di “Progetto Marco”, ma stavolta sarebbe bene procedere non “pangono pangono ” (piano piano) come si usa dire in Malawi ma un po’ più velocemente.

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