di Agostino Bagnato

Ennio Calabria, Ritratto di Ernesto Che Guevara, 1968, olio su tela, 110x80

UNA NOTIZIA IRREPARABILE

Il pomeriggio del 9 ottobre 1967 ero diretto, a bordo della mia 500 Fiat, nella sede della Federazione Comunista Romana in Via dei Frentani, dove era convocata la Sezione Agraria per discutere iniziative riguardanti l’approvazione della legge sul superamento della colonia migliorataria e dell’enfiteusi nelle province dell’ex Stato Pontificio. Sul sedile vicino era posata la radiolina accesa che trasmetteva musica classica: il terzo canale della Radio era il mio appuntamento fisso. Dopo la riunione avrei proseguito per Genazzano, dove era prevista l’assemblea dei contadini della zona, coloni del principe Colonna e della Curia Vescovile di Palestrina. Al momento un certo punto la musica si interruppe e fu annunciata una breve edizione straordinaria del Giornale radio. Venne comunicato che dalla Bolivia era giunta la notizia della cattura e della morte di Ernesto Che Guevara. Molti altri guerriglieri erano stati uccisi. I corpi dei caduti erano stati trasportati a Vallegrande e mostrati alla popolazione.

Ebbi un sussulto di stupore e di emozione. Possibile? Il leggendario medico argentino, intrepido compagno di Fidel Castro Ruíz lotta sulla Sierra era stato ucciso dai soldati boliviani che avrebbero dovuto combattere al suo fianco per abbattere la dittatura del famigerato generale René Barrientos Ortuño. El Che era a capo del suo piccolo Ejército del Liberation Nacional, composto da cinquanta volontari. La spedizione militare non aveva incontrato i favori del Partito Comunista Boliviano, perché considerata prematura e avventurosa. Di conseguenza, il comandante della Sierra cubana era rimasto isolato, privo di sostegni materiali e senza che ci fosse incitamento alla lotta tra le disperate popolazioni dei campesinos.

Dopo settimane di peripezie, l’esercito boliviano sotto la guida di René Rodríguez, agente della CIA infiltrato a Cuba e poi inviato a contrastare la sollevazione popolare di Che Guevara, ebbe facile gioco nell’isolare il contingente dei guerrilleros nel pueblo di La Higuera. Ernesto Che Guevara fu ferito ad una gamba, fu catturato e ucciso nella quebrada (burrone, vallone, ovvero terreno spaccato) del villaggio da parte dello stesso Rodríguez, su ordine del dittatore Ortuño. Il corpo fu trasportato a Vallegrande il giorno dopo, legato ai pattini di un elicottero militare.

La notizia si sparse in tutto il mondo. Proprio in quei primi minuti dell’annuncio della morte e dello strazio del corpo ha inizio la leggenda del comandante Ernesto Che Guevara.

Giovanissimo, non sapevo molto del medico argentino che si era unito ai barbudos cubani per abbattere il regime di Batista. In Calabria, avevo seguito alla radio le fasi della lotta vittoriosa dei guerrilleros sulla Sierra ed ero orgoglioso che il primo regime dittatoriale fosse stato abbattuto con la lotta popolare e l’insurrezione armata. Tutti si chiedevano perché gli Stati Uniti avessero permesso quel pericoloso successo, conseguito nel nome del comunismo: la risposta che si davano i commentatori era che gli americani non riuscivano a sostituire Batista con un loro uomo meno odiato dalla popolazione cubana. Io non ero in grado di dare una risposta, né tanto meno di formulare una domanda. Studiavo a Vibo Valentia con professori di formazione liberale e cattolica ostili alla lotta di liberazione dei popoli. Anche i miei compagni di classe erano in generale indifferenti a questi temi di attualità e in generale alla politica.

Entrati vittoriosi a La Havana all’inizio del 1960, preceduti dai servizi giornalisti entusiastici di Ernest Hemingway e di molti inviati di tutto il mondo, l’attenzione fu subito attratta dal volto aperto, solare, splendente di fiducia e certezza nel futuro di un giovane che, a fianco del comandante Castro, partecipava ai raduni, alle riunioni del governo con la carica di ministro, alle manifestazioni popolari, agli incontri internazionali. In poco tempo Guevara era diventato una delle massime personalità del nuovo regime. Durante una manifestazione popolare il fotografo Alberto Kodra scattò molte foto proprio al Che. Diffuse in tutto il mondo, resero popolarissimo il giovane rivoluzionario. Alcuni pittori ne fecero il soggetto di loro dipinti: tra questi l’americano Andy Wahrol che nei suoi celebri multipli ne ricavò una vera e propria icona conosciuta in tutto il mondo.

Gli oppositori di Castro iniziarono a lasciare il Paese, diretti in Florida. Accusavano gli Stati Uniti di avere lasciato l’isola nelle mani dei comunisti, alimentando una campagna di odio e di vendetta contro i rivoluzionari castristi. Gli esuli, addestrati dalla CIA, decisero di sbarcare sull’isola e di riconquistare il potere. Ma furono sbaragliati dall’esercito cubano e dai volontari accorsi all’appello di Fidel e di Guevara. Nella Baia dei Porci gli aggressori furono sbaragliati e costretti a tornare in Florida. Si levarono alte grida contro John Kennedy, nuovo presidente degli Stati Uniti, accusato di non avere sostenuto lo sbarco. La verità è che gli USA erano ancora frastornati dalla vittoria castrista e non sapevano come fronteggiarne l’espansione e l’esportazione nel resto dell’America latina e nel mondo. La politica della Nuova Frontiera, lanciata nel 1961, non aveva funzionato come avrebbe dovuto.

La vittoria della Baia dei Porci aumentò la popolarità di Fidel Castro e dei suoi compagni, facendone dei campioni della lotta per la libertà e il progresso dei popoli oppressi dall’imperialismo e dal colonialismo, secondo la formula impiegata dal tempo della Terza Internazionale leninista. L’avvicinamento fra Cuba e l’URSS di Nikita Chruscev divenne una facile conseguenza della situazione d’isolamento in America, mentre più difficili di presentarono le relazioni con la Cina di Mao tse Dong. Nacque proprio in quegli anni la teoria della lotta armata per la conquista del potere nei paesi appressi dall’imperialismo e dal colonialismo, denominata castrismo, a fronte della politica dell’Unione Sovietica incentrata sull’organizzazione degli operai e dei contadini nel tradizionale partito urbanocentrico.

Il ruolo politico di Ernesto Che Guevara restava ancora poco chiaro agli occhi del mondo. Dopo essere stato ministro degli esteri ed avere accompagnato Fidel Castro alle Nazioni Unite, dove era tornato più volte pronunciando discorsi infiammati contro l’imperialismo e incitando alla lotta armata contro l’oppressione capitalistica. Nel 1965 si era recato in Congo per guidare la resistenza contro il dittatore Mobuto, ma nn era riuscito ad ottenere risultati soddisfacenti. Decise di tornare a Cuba e di occuparsi della zafra, la raccolta della canna da zucchero, principale risorsa del Paese dopo l’embargo imposto dagli Stati Uniti in seguito alla nazionalizzazione delle proprietà americane, aggravate in seguito alla crisi dei Caraibi del 1962, nota come tentativo di installare missili sovietici sull’isola.

All’inizio del 1967 si sparse la notizia che, dopo, l’esperienza in Congo a fianco dei Simba, combattenti anticoloniali locali, si era diretto in Bolivia per organizzare la guerrilla e sollevare le masse contadine e i soldati contro il regime dittatoriale di Ortuño sostenuto dagli Stati Uniti. Le notizia che giungevano dalla Cordigliera non erano precise, ma che sperava in una rapida avanzata verso La Paz rimase deluso. Non solo, i contadini boliviani erano rimasti indifferenti ai proclami insurrezionali, per cui el ejército rebelde del Che rimase composto da poco decine di unità, poco addestrate e male armate. Ma nessuno si aspettava la terribile notizia.

EMOZIONE E DOLORE NEL MONDO

In Federazione giungevano intanto i compagni dalle sezioni riunite in seduta straordinaria. Anche se il Che non era ancora quello che sarebbe stato in seguito, la vera e propria icona della lotta di liberazione dei popoli appressi dal neocolonialismo e dalla dittatura militare, fino ad assurgere a simbolo della battaglia universale per la l’uguaglianza, la libertà, la democrazia, contro l’autoritarismo e la degenerazione burocratica del potere, l’emozione suscitata dalla notizia ed il dolore per la scomparsa tragica di un grande combattente internazionalista erano palpabili. Ernesto Guevara era argentino, proveniva da una buona famiglia borghese, era un uomo colto e sensibile: perché ha scelto di combattere per la libertà di un paese lontano, anche se dotato di stessa lingua, religione e cultura? Non era questo un tratto di quell’internazionalismo che aveva fatto accorrere tra le file di Giuseppe Garibaldi giovani romantici dell’Europa e dell’America latina che in camicia rossa combattevano per la libertà dell’Uruguay e dell’Italia? E non era questo un tratto di quell’altro grande movimento del socialismo libertario che aveva dato vita alla Comune parigina nel 1871 e sulla fine del Novecento portava rivoluzionari russi, polacchi, tedeschi, inglesi, francesi, italiani a combattere per l’emancipazione dei lavoratori e dei contadini in ogni angolo dell’Europa capitalista?

Ernesto Che Guevara appariva già allora, anche se a pochi, una figura romantica di combattente per la libertà, indipendentemente dalle latitudini e dalla storia di ciascuno. Al centro c’era l’uomo con i suoi bisogni e i suoi diritti. Sarebbero stati questi i temi del Maggio francese dell’anno successivo, anche se il nome di Guevara non era ancora gridato da milioni di giovani, come sarebbe accaduto qualche anno dopo.

Renzo Trivelli tenne un breve discorso nella sala delle riunioni affollata, sulla base delle poche notizie giunte. Svolse anche alcune considerazioni critiche sulla natura della spedizione, in linea con le posizioni ufficiali del PCI e di molti altri partiti comunisti occidentali, allineati con la diffidenza manifestata a suo tempo dallo stesso PCUS. Ma l’emozione per la morte di uno degli eroi della Sierra era troppo grande per stare a riflettere sulle ragioni della sconfitta.

Non andai a Genazzano. Ritenevo che stare tra i compagni romani era più importante che parlare di colonia ai contadini dei Monti Prenestini.

Il giorno dopo, mio padre mi disse che quella morte avrebbe provocato grandi discussioni all’interno dei partito. Era stato alla riunione nella sezione di Ponte Milvio e il segretario Bruno Roscani aveva previsto che il dibattito si sarebbe acceso, ma avrebbero prevalso gli aspetti umani e soprattutto l’indignazione avrebbe sopito le divisioni all’interno del movimento comunista internazionale. Non sapeva esattamente chi era il nuovo martire della lotta contro l’oppressione dei popoli, come dicevamo allora, ma aveva compreso che si trattava di una figura importante e che lo sarebbe stata ancora di più in futuro. E così è stato. Il dibattito è proseguito negli anni successivi, ma la figura di Ernesto he Guevara aveva perso attualità sul fronte politico, perché il confronto tra castrismo e ortodossia sovietica aveva preso una direzione differente, di fronte alle difficoltà insorte in seguito al colpo di stato in Cile contro il presidente socialista Salvador Allende da parte del sanguinario generale Pinochet .

ICONA DEL NOVECENTO

Ma la statura umana e morale di Ernesto Che Guevara andava crescendo con il passare del tempo. La sua immagine stampata sulle magliette di milioni di giovani in tutto il mondo alimentavano la sua fama e ne facevano una vera e propria bandiera d’identità ideale, rivoluzionaria e anche morale. Il suo basco con la stella rossa immortalato nella foto più diffusa di Alberto Kodra era una divisa inconfondibile. Quelle immagini divennero anche un grande business mondiale, di cui gli unici beneficiari sono stati proprio quegli industriali che Guevara combatteva per ricondurli a comportamenti di correttezza e di giustizia sociale.

I suoi Diari e i suoi saggi sulla guerriglia tradotti in tutto il mondo hanno diffuso le idee di Che Guevara tra milioni di giovani. Ma è stato il canto per la sua morte, scritto e cantato da Carlos Manuel Puebla, che diffusero in ogni angolo del mondo la storia e la figura del Comandante. La canzone era stata scritta in occasione dell’addio di Ernesto Che Guevara a Cuba nel 1965, avendo deciso di tornare alla lotta armata a fianco degli oppressi. La prima tappa sarebbe stata il Congo. L’ultima, quella fatale, la Bolivia. All’annuncio della morte, quel canto fu modificato in alcune parti e si diffuse con una rapidità sorprendente, come si trattasse di un hit dei gruppi rock più popolari.

Con l passare del tempo il mito del Che andò crescendo. In qualsiasi parte del mondo mi sono trovato a parlarne con qualcuno, in particolare giovani artisti e dirigenti politici, non c’è stato mai nessuno che abbia avuto parole contrarie al Che: tutti ne hanno esaltato il coraggio, il valore, l’altruismo. Quell’internazionalismo romantico di cui si è detto prima. Ed è questa la sua grande forza nel tempo.

A Parigi, negli anni Novanta, ho incontrato Roberto Diaz York, pittore cubano fuggito dall’isola giovanissimo dopo l’arrivo dei barbudos. In un incendio che aveva distrutto la sua abitazione e lo studio parigini, aveva perso documenti personali, lettere della famiglia e degli amici, fotografie. Era un uomo senza passato. Eppure parlando di Cuba, ricordava i paesaggi meravigliosi, le spiagge, l’oceano. La Havana gli tornava in mente come un sogno, rivivendola nelle pagine de Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway. Manifestava astio per il castrismo, ma aveva parole di ammirazione per Guevara che aveva scelto di combattere non per sé ma per gli altri, anche se non ne condivideva la finalità.

Nel 2007 ho avuto un breve fortuito incontro con un dirigente cubano che aveva partecipato alla lotta armata sulla Sierra. Le sue origini polacche lo allontanavano dalla fisiognomica latina, ma il suo linguaggio colorito esaltava il rapporto con Fidel Castro e con Guevara. Il ricordo di quest’ultimo era molto nitido e il monumento eretto a Santa Clara ne restituisce interamente il suo carattere. Peccato che non ho mai potuto vederlo dal vivo.

Nel 2004 è venuto il film I diari della motocicletta (Diarios de motocicleta), tratto dai diari del medico argentino. Il regista Walter Salles ne ha fatto un vero capolavoro nella ricostruzione della prima giovinezza di Ernesto Guevara de la Sierna, interpretato da Gael García Berual, accanto a Mercedes Morán, Jean Pierre Noher, Mia Maestro. La scena finale con il giovane avventuroso che attraverso a nuoto il fiume Paranà verso l’ignoto è proprio la metafora della vita di questo Garibaldi del Novecento.

Così mi piace ricordarlo. Come una figura che si è spesa per la speranza, attraversando l’ignoto dell’esistenza.

Roma, 9 ottobre 2017

 

                                                                                 

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