Ettore Ianì, sociologo

“Il passato è un paese straniero.

Lì tutto si svolge in modo diverso”

L.P. Hartley

La notizia della morte di Ernesto Guevara, a solo 37 anni e noto più come il “Che”, per utilizzare il pronome che come connettivo a ogni suo discorso, una sorte di cioè, la ho appresa alla Piazzetta del mio paese, ad Argusto, provincia di Catanzaro, di mille anime, collinare e a vocazione agropastorale. Fino alla fine degli anni Settanta la Piazzetta, sicuramente la principale e centrale del paese, ma non certo al centro della polis, ha rappresentato un’adunanza con il prevalente gusto della sagra strapaesana. La Piazzetta non era grande e aveva una figura geometrica semicircolare, con al centro un albero secolare, diverse panchine in cemento di colore arlecchino, con schienale e senza braccioli, e una fontanella a foggia di colonnina. Rappresentava un luogo privilegiato degli incontri, uno spazio fisico simbolico e metaforico, una sorte di palcoscenico dove la controparte veniva mitigata con il senso di appartenenza della comunità e il riconoscimento di una superiorità morale agli anziani e della classe dirigente (professore, medico, farmacista e notaio). Uno spazio pubblico al centro del paese per consumare una scena di vita collettiva con una funzione d’interrelazione sociale, concepita per uno scambio di esperienze di ciascuno, tanto che la chiacchera inopportuna e indiscreta prendeva il sopravvento, fino al punto che i fatti privati diventavano di dominio pubblico. Non ricordo chi ha comunicato la notizia, ma la presentò con una certa inquietudine, sembrava davvero preoccupato e addolorato. Forse per esorcizzare per timore di non essere all’altezza di affrontare l’argomento nell’arena della Piazzetta, la buttò subito in caciara, tanto che l’attenzione cadde sulle solite chiacchere senza costrutto. Ricordo bene che si cominciò a riparlare e con fervore di Nino Benvenuti, il quale aveva perso ai punti il match con lo statunitense Emile Griffith. La difesa ad oltranza, ma non con il consenso di tutti, del nostro connazionale ruotava intorno al fatto che: “Esta nù veru schifu perdira cu’ nù fròsciu” (E’ repellente perdere con un omosessuale). Dopo una lunga e istintiva disquisizione sulla virilità calabrese, inevitabilmente virata sui benefici effetti del peperoncino e della ‘nduja, si cominciò a parlare del Che. Non tutti conoscevano la sua storia o ne avevamo una generica e superficiale nozione, ma ciò non ha impedito ai presenti della ”Piazzetta-Agorà” di scaldarsi, appassionarsi e dividersi. Nei giovani di sinistra, come me, ha prevalso il richiamo del suo carisma, i suoi ideali a favore della liberazione dei popoli oppressi dell’America Latina e dell’Africa e il successo della rivoluzione cubana. Per gli altri, la maggioranza a dire il vero, il Che appariva più che un rivoluzionario una sorta di brigante, non nel senso dispregiativo, semmai come un rivoltoso a favore dei più poveri e deboli. Lo paragonarono a Giuseppe Musolino, taglialegna di mestiere, gentiluomo arrestato ingiustamente per motivi non politici, ma personali. Noto come “U’re i l’Asprumunti” (Il re dell’Aspromonte, allora un’impervia e massiccia montagna dell’Appenino calabro meridionale), divenne un simbolo di sana reazione contro le ingiustizie e i soprusi. Allora come oggi mi chiedo: “Se la stessa scena si fosse svolta in Campania, l’icona dei movimenti rivoluzionari di sinistra, avrebbe preso le sembianze del capopolo napoletano del 1600, Masaniello, che guida i rivoltosi “lazzaroni” all’assalto degli uffici daziari?”.

Per quello che mi riguarda avevo scoperto Che Guevara verso la fine del ‘63. Allora frequentavo l’Istituto Tecnico Industriale e la mia coscienza politica e sociale aveva un bagaglio ideologico-politico piuttosto leggero, del resto era raro che il programma scolastico di storia andasse oltre la seconda guerra mondiale. Era assai improbabile che i fatti contemporanei, la rivoluzione cubana, la figura di Ernesto Che Guevara, John Fitzgerald Kennedy o Martin Luther King venissero studiati sui libri. Quando sentivo parlare del Che o del Vietnam, che non avevo la minima idea della sua geo localizzazione, il mio pensiero, prima della mia presa di coscienza, era quello di vedere gli avvenimenti internazionali con un certo distacco, benché percepivo, non senza qualche disagio, che quel distacco dai problemi sociali e politici che coinvolgevano l’intero globo fosse assai provinciale. Tanto Argusto, sperduto tra le coste del mare Jonico e le montagne della Serra, di cui divenni sindaco nel ’75, mi chiedevo: “che centra, cosa o da spartire con Cuba, il Vietnam , con l’integrazione razziale o con il monaco buddista che a Saigon si bruciò in piazza per protestare contro la guerra in Vietnam?”. Il mondo non era ancora interconnesso, integrato, globale come oggi, e quello che accadeva lontano dalla Calabria lo percepivo sbiaditamente, con un certo colpevole distacco e disinteresse. Questa indifferenza, o meglio incapacità culturale di guardare al di fuori del mio ombelico, verso ciò che mi accadeva intorno e che stava cambiando il mondo, muta luce e verso intorno alla fine del ’63. Ero andato dal barbiere per tagliarmi i capelli e trovai buttata “nu panàru” (Paniere di vimini e di canne a forma cilindrica bombata) una rivista vecchia, sbrindellata e corrosa dal tempo. La ho presa meccanicamente per sfogliarla in attesa del mio turno. Non sono certo se si trattasse della rivista di Gente o dell’ Europeo, ma conservo lucidamente nella mia memoria il servizio fotografico sul Che e il reportage che esaminava ampiamente la rivoluzione che portò Cuba al rovesciamento della dittatura di Fulgencio Batista, dittatore al servizio delle mafie statunitense, e all’ascesa al potere di Fidel Castro. Mi colpirono in modo indelebile le foto del Che: barba e capelli lunghi, giacca militare, basco nero con stella argentata bel calcato in testa e l’immancabile sigaro. Confesso che sui contenuti del ricco articolo ho avuto qualche difficoltà di comprenderne in pieno il succo. Certo è che dal quel momento, sopportato anche dal megafono dei messaggi musicali, in piena sintonia con gli eventi storici degli anni ’60, cominciai a percepire cosa stava succedendo in quegli anni. Suonavo il sassofono tenore, comprato a rate e lavorando nella marmeria dei fratelli Lanzallotti, nel complesso Gli Arguti, un gruppo tipico degli anni’60 con tante pretese ma musicalmente, tranne il bassista, con scarsa efficacia espressiva. La musica allora non era rimasta estranea alle richieste di cambiamento. Così sulle note delle canzoni di Bob Dylan, Joan Baez, Donovan e tanti altri cantanti politicamente orientati, anch’io sono stato coinvolto dal propagandarsi non solo da un nuovo genere musicale denominato beat, pop, rock, dall’avvento dei capelli lunghi e delle minigonne, ma soprattutto dai testi di molte canzoni contro la guerra, la società dei consumi, contro l’imperialismo e il razzismo. Assai difficile non ricordare “We Shall Overcome”, un vero inno pacifista, cantata dalla Baez o “Hasta Siempre, Comandante” ancora oggi eseguita in tutto il mondo, specie da artisti impegnati a sinistra, o “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones “ di Mauro Lusini e portata al successo da Gianni Morandi, o “Addio Che” di Gabriella Ferri, o “Anch’io ti ricorderò” di Sergio Endrigo. Certo si trattava di una protesta generica e ottimistica, ma che toccavano temi sociali, culturali e politici che ha fatto sognare una generazione. La musica contribuì, assieme al cambiamento avvenuto nella struttura sociale con il “miracolo economico”, a giocare un ruolo efficace di arma di aggregazione e propaganda. Molte sono state le canzoni che diventeranno inni del movimento pacifista, delle proteste giovanili, dell’impegno in difesa dei diritti civili e contro la guerra, a favore della rivoluzione sessuale e dell’ambiente. Parallelamente la protesta investì anche i partiti, la scuola e la famiglia, considerate strutture sociali inadatte a rispondere alle reali esigenze e bisogni delle nuove generazioni. La stampa in generale non fu generosa verso quel fenomeno di portata internazionale che riuscì ad armonizzare, in una quasi perfetta simultaneità, l’intero pianeta benché provenienti da esperienze distinte, ma animati da idee, lotte e obiettivi comuni. I capelli lunghi, gli abiti trasandati, le fughe da casa scandalizzarono gran parte dell’opinione pubblica. Piano piano, in maniera lenta ma crescente, prendevo consapevolezza della complessità e spazialità senza frontiere che mi portò a quel processo di politicizzazione che in seguito mi ha consentito di leggere le gesta di Guevara con grande ammirazione, seppur non senza dubbi e perplessità sulla sua strategia politica. Era il 9 ottobre del 1967, ed io avevo 19 anni, quando il Che fu vilmente assassinato, secondo la pubblicistica corrente, da un reparto anti-guerriglia dell’esercito boliviano assieme ad agenti speciali della Cia e probabilmente su istruzioni di Mosca. In seguito non mancarono i dossier, libri, convegni, scoop autentici e fasulli, per scagionare la Cia dalla morte di Che Guevara. Di certo è che la morte di Guevara, a distanza di cinquanta anni, resta avvolta nelle nebbie delle bugie, disinformazioni e depistaggi: la cosa certa è che il Che è rimasto sconfitto in una battaglia che pensava di poter vincere o che comunque valesse la pena di combattere.

L’esplosione e la eco di Berkeley del 1964, università californiana, di un movimento contro gli Stati Uniti d’America per la guerra contro il Vietnam del Nord con massicci bombardamenti e con armi di sterminio, la diffusione della musica di protesta, il clima della ricostruzione, con un forte sviluppo tecnologico e dei consumi, e il vento socioculturale del Sessantotto, cominciava, seppur in forma contraddittoria, parziale e tardiva, a fomentare passioni anche nella Piazzetta di Argusto. Un contagio epidemico che allora mi spinse ad approfondire ulteriormente le mie conoscenze sull’eroe della rivoluzione cubana, sul rivoluzionario internazionalista, sul profeta di un nuovo mondo senza oppressi e oppressori.

La mia famiglia era molto povera, quanto orgogliosa e dignitosa, non aveva in casa la televisione e neanche il frigo, che arrivarono a marzo del 1973, ma mio padre comprò per i suoi cinque figli l’enciclopedia Labur. Enciclopedia che ancora oggi viene conservata a casa di mia madre, nonostante tutta la famiglia si fosse trasferita a Roma e con l’attivo di diversi traslochi, come simbolo di una esperienza spartana, di un vissuto che ha impresso nella mia coscienza un passato di penuria, ma non certo per l’acquisto di libri, giornali o per il pagamento della tessera al Pci, cui mio padre era iscritto e segretario della locale sezione. Mi recai subito a casa per consultarla, ma trovai scarne notizie per il semplice motivo che la sua pubblicazione era del 1962. Ho atteso con una certa affannosa agitazione la serata per vedere il telegiornale, e come spesso accadeva, andai dai vicini di casa per vederlo. Il televisore allora era in bianco e nero o “monocromatico”, come con civetteria amavo chiamarlo, con immagini spesso sfuocate o sgranate. La edizione del TG di quell’infausto 9 ottobre del 1967, si limita, forse perché era ancora tutto ufficioso e caotico, a brevi cenni del tragico avvenimento, spietatamente consumatosi poco ore prima. In quel periodo la Rai era diretta dal democristiano di Sinistra Fabiano Fabiani, che relegò la notizia tra le brevi dall’estero. Rimasi male, molto male: mi aspettato uno speciale, un approfondimento. Andai sulla Piazzetta per cercare qualcuno con cui commentare come un telegiornale potesse sottovalutare una notizia così politicamente dirompente. Era tardi e come sempre ad Argusto la sua vita si spegneva verso le 20 di sera, e non si poteva certo prolungarla con l’utilizzo dei telefoni che non c’erano. Tornai a casa in preda di un profondo sconforto e riflettevo come venne ferito, catturato e giustiziato nella selva boliviana (La Higuera), come la sua morte rappresentò la sua ultima battaglia per i poveri, gli oppressi, gli emarginati e gli invisibili. Ero triste, ma l’idea che ci fosse qualcuno capace di difendere i più deboli e pronto per loro sacrificare la vita, mi gettò una luce di speranza, di riscatto e anche di rivolta. Allora era scritto da poco alla Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) e stavo scappando da casa per andare a iscrivermi all’università di Sociologia di Trento, crocevia del ’68, benché città tradizionalista e fortemente cattolica, tanto che la Democrazia Cristiana vinceva le elezione con oltre il 65 percento. Avevo letto qualcosa sui rimbrotti di Guevara contro i giovani che preferivano studiare le discipline filosofiche o letterarie, piuttosto che ingegneria o chimica per poter sviluppare le forze produttive, ma la mia scelta si aggrappava sul fascino dell’accattivante e dinamica scienza dei comportamenti della società umana. Mio padre, comunista e soprannominato “Il diavolo rosso”, molto apprezzato e stimato dagli argustesi, a stragrande maggioranza Democristiani fino a metà degli anni Settanta, da sarto cuciva per i contadini e i poveri esercitando loro uno sconto che l’economia della famiglia non si poteva permettere, aveva deciso che dovevo prendere una laurea breve in statistica, materia di non mio gradimento. Il mito del Che durante gli studi universitari mi accompagnò sempre, anche se la mia formazione politica rimase coerente alla politica del Partito comunista italiano (Pci) e i suoi derivati, almeno fine al 2016: oggi le mie certezze politiche traballano, hanno perso il senso della direzione. Guardo con certo disincanto la fine del compatto mondo del Novecento e l’affermarsi della globalizzazione che ha aumentato le disuguaglianze, indebolito il welfare e la democrazia rappresentativa. Privo di illusioni, scetticismo e sofferenza guardo la sinistra sempre più divisa e dilaniata in una litigiosità fratricida, in frantumi e spappolata, incapace di trovare una sintesi di testa e non solo di pancia.

Mi iscrivevo a sociologia in pieno autunno caldo del 1969, contiguo alle lotte degli “studenti proletari”, protagonisti del ciclo più lungo di lotte nel decennio successivo nelle università, nelle scuole di ogni ordine e grado. L’università di Sociologia di Trento rappresentava l’epicentro della contestazione italiana, un momento cruciale della manifestazione di protesta, di anni ricchi di esperienze politiche e sociali contraddittorie, con studenti giunti lì da tutta Italia per una scelta chiara e motivata, nonostante il riconoscimento giuridico della laurea era incerto. La prima Facoltà di Sociologia istituita in Italia, che consentiva l’iscrizione anche agli studenti provenienti dagli istituti tecnici che letteralmente invasero, assieme alle donne (oltre in 40 percento), il capoluogo dell’Autonoma Provincia. La esperienza universitaria di Trento rimane per me nebulosa, una sorta di sbornia non ancora smaltita, ma vissuta con euforia e disinibizione, con il fascino del provinciale e dello studente lavoratore impegnato politicamente.

Ricordo che nel 1969 all’università di Trento, ci fu l’ondata della contestazione con l’occupazione di circa tre mesi (febbraio-aprile). Non condivisi quella iniziativa sia perché da studente lavoratore (lavoravo nella vicina Svizzera, come tuttofare in una stamperia, Typographie Robert) volevo studiare, sia perché l’occupazione non fu discussa, sia perché tutto era in mano all’oligarchia dei leader come Curcio, Mauro Rostagno, Duccio Berio, Paolo Sorbi, Marco Boato, Mara Gagol. Molti di quei protagonisti, come la storia ci ricorda, sposeranno l’estremismo di sinistra e parteciperanno da protagonista alla drammatica esperienza della lotta armata. Rostagno, soprannominato il “Che di Trento”, assieme a Curcio, Cagol e altri fonderanno le Brigate Rosse, mentre Adriano Sofri, Marco Boato, Giorgio Pietrostefani, Enrico Deaglio e altri fondarono il movimento Lotta Continua. La rottura radicale dei vecchi schemi didattici e il trionfo di una fase sovraccarica di ideologia e utopia, istintivamente non godeva del mio consenso. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato quando il padre della moderna sociologia Max Weber veniva bandito come un pericoloso borghese, in favore di Mao e Lenin e uno spruzzetto di Guevara. Renato Curcio spesso e volentieri criticava il “filocastrismo”, bollandolo di avventurismo e di piccolo borghese in cerca di emozioni. Del resto, alla stella argentata del Che preferì la sghimbescia delle Brigate Rosse. Avrei voluto confutare prontamente, rispondere colpo su colpo a quei giudizi che ritenevo assai tranchant, ma lui era un leader ed io allora un provinciale, uno studente lavoratore impacciato, oppresso da un senso di timore e di soggezione di fronte a persone e ambienti che non tenevo sotto controllo.

Vivevo il clima Trento come sempre più lontano dalle mie esigenze di studio, avevo sostenuto solo un esame, non riuscivo fare attività politica per il Pci. Cominciavo a stancarmi di fare un lavoro poco retribuito e con orari e tempi disumani, non congeniali a quello che mi ero prefisso iscrivendomi all’università. Per raggiungerla partivo da Moutier, un paese del Canton Berna, dove lavorava con la sua famiglia mio fratello più grande, ogni mercoledì con il treno verso le 22 per arrivare al mattino presto e ritornare il sabato mattina sul tardi. Condizioni di vita che andavano oltre la mia capacità di sopportazione. Decisi di lasciare l’università di Trento e di scrivermi a Sociologia a Roma, Facoltà del Magistero. A Roma, dove si era trasferita la mia famiglia, il neo e più “tranquillo” corso di laurea in Sociologia, sotto la direzione di Franco Ferrarotti, coadiuvato dal mai dimenticato Corrado Antiochia, il Che godeva di una maggiore attenzione e benevolenza, soprattutto nella sinistra extraparlamentare. Cominciai a vestirmi come lui, eskimo di color grigio verde o giaccone di taglio militare, barba e capelli lunghi (nonostante la mia generosa stempiatura), stivali con i lacci. Un abbigliamento controcorrente che poco aveva a che fare con la tessera del Pci che avevo in tasca, ma appagava le aspettative, i bisogni e l’istintivo atteggiamento di protesta giovanile. Partecipavo attivamente alle iniziative studentesche promosse dal Pci e con qualche cautela a quelle degli extra parlamentari come Lotta Continua o Potere operaio. Lavoravo per mantenermi agli studi. Non ero schizzinoso e facevo quello che capitava, compreso quello di vendere i giornali la mattina di domenica vicino ai semafori, un ante litteram, un po’ come fanno oggi gli immigrati di colore. Svolgevo i lavori più disparati, tanto che nei miei primi curriculum vitae scrivevo di svolgere lavori non facilmente catalogabili. Avevo voglia di finire l’università, anche perché conseguire la laurea per me avrebbe significato realizzare un vero e proprio riscatto sociale: nessuno aveva puntato su di me, né i professori, né mio padre. Avevo una voglia matta di gridare a tutto il mondo: “C’è l’ho fatta, sono un dottore in sociologia!”. Quando accadde, con il massimo dei voti e lode, consumai l’agognato traguardo limitandomi a un compiacimento intimistico.

Di Ernesto Guevara continuava ad affascinarmi la sua coerenza di aver fatto marciare di pari passi la teoria e prassi rivoluzionaria; per aver vissuto in nome di un ideale di giustizia sociale e di liberazione dalla schiavitù imperialista; per le battaglie fatte in ogni parte del mondo sotto la bandiera del socialismo; per non essersi accontentato di analizzare sociologicamente la realtà, ma coerentemente spese le sue energie per modificarla a favore dei più deboli; per aver dedicato particolare attenzione all’organizzazione, tanto da scrivere che molte iniziative, mole idee erano fallite, per il Che, per mancanza del necessario apporto organizzativo senza il quale dopo il primo impulso perdono di efficacia, cadono nella routine, nel conformismo e finiscono per essere semplici ricordi. Un Guevara pragmatico, idealista, un marxista-leninista, pronto a “sporcarsi le mani” nel lavoro quotidiano. Intanto, oltre i libri che si studiavano per gli esami universitari come Charles Wright Millis, Theodor Adorno o Herbert Marcuse, cominciavo a scoprire Zygmunt Bauman, Friedrich Nietzsche e Antonio Gramsci. Con quest’ultimo il mio rapporto fu ammaliante, uguale e contrario al Che. La scoperta del concetto dell’egemonia culturale nell’accezione gramsciana, leggendo il primo libro dei Quaderni del carcere, mi fece riflettere molto, anche sulla strategia politica del Che. Egemonia che si contrapponeva all’idea di “dominio” di una parte sull’altra della società, semmai come potere basato sulla presenza contemporanea di forza e consenso e quando il consenso prevale, per una compiuta capacità di direzione, allora si realizzava l’egemonia. Il potere basato essenzialmente sul consenso, sulla capacità di governare attraverso la persuasione e l’adesione a uno specifico progetto politico e culturale. Quando si perde l’egemonia culturale, ideale, morale e politica allora l’esercizio del dominio è destinata a cadere. Gramsci si distacca dalla teoria fondata su un’autorità che reprime la libertà come la “dittatura del proletariato” di Karl Marx e Friedrich Engels, ma anche dal Guevara che predicava l’uso della lotta armata contro l’imperialismo. Il Pci, soprattutto quelli di destra come Giorgio Amendola, non amava il Che, gli rimproverava da una parte una certa gracile ideologia e dell’altra di incarnare le gesta della “rivoluzione permanente” teorizzata dal politico, rivoluzionario e scrittore Lev Trotskij, allora tabù per la dottrina comunista ortodossa. Lo bollò come lo “stratega da farmacia”, giudizio che trovai politicamente ingeneroso. Le nuove letture, e le conseguenti conoscenze culturali e politiche, mi hanno spinto a compiere una attenta revisione delle mie certezze. Una revisione che non ha scalfito più di tanto l’idealizzato e trascendente Guevara, almeno dal punto di vista emozionale, mentre politicamente, senza rinnegare il pathos che ancora mi lega a lui, resto gramsciano, con una irrefrenabile vocazione riformistica.

La popolarità di Che Guevara in questo mezzo secolo ha registrato una fluttuazione vivace, ma la sua icona ha resistito all’usura e logorio del tempo. E' sopravvissuto a Lenin, Mao, Rosa Luxemburg e ad altri miti politici di sinistra del Novecento, non certo perché era bello e giovane e non ha avuto tempo per invecchiare sia nel fisico sia nelle idee, come vuole una certa pubblicistica. Il Che resiste all’usura del tempo per la sua utopia, per il sogno di un uomo nuovo, per il suo essere combattente e non perdere mai la sua candida tenerezza, per essere il più umano e completo del suo tempo, come ha sostenuto lo scrittore più significativo dell’esistenzialismo e premio Nobel per la letteratura, Jean-Paul Sartre.

Ancora oggi, nel suo cinquantesimo anniversario della sua morte, con il disincanto di un uomo attempato, mi piace pensare che la sua figura complessa e controversa, l’utopia del bene sul male, il suo essere romantico e repressore, il suo essere uomo d’azione e intellettuale, m’intriga e mi affascina ancora, e non importa di quale Che si parli. Come dargli torto al Nobel per la letteratura nel 1998, José Saramago: “Uno qualsiasi: serio, sorridente, con un’ arma in mano, con Fidel o senza Fidel, mentre pronuncia un discorso alle Nazioni Unite o morto, a torso nudo e occhi semiaperti, come se dall’altra parte della vita volesse ancora accompagnare il cammino del mondo che dovette lasciare, come se non si rassegnasse a ignorare per sempre la strada delle infinite creature che stavano per nascere.

Su ognuna di queste immagini si potrebbe riflettere profusamente, in modo lirico o drammatico, con l’oggettività prosaica dello storico, o semplicemente come chi si mette a parlare dell’amico che scopre di aver perduto perché non è riuscito a conoscerlo….”

Questo sito web fa uso di cookie tecnici 'di sessione', persistenti e di Terze Parti. Non fa uso di cookie di profilazione. Proseguendo con la navigazione intendi aver accettato l'uso di questi cookie. To find out more about the cookies we use and how to delete them, see our privacy policy.

  I accept cookies from this site.
EU Cookie Directive Module Information