Dopo l’ampio studio sulle donne aviatrici dell’Armata rossa nella Seconda guerra mondiale, pubblicato dalla rivista con il titolo Le streghe della notte, l’autrice affronta un tema ancora poco noto sul ruolo delle donne nei conflitti armati. Questa volta tratta delle donne soldato he hanno combattuto in qualità di “cecchine” sul fronte di Odessa e poi di Sebastopoli, nel tentativo di ostacolare l’invasione nazista dell’Unione sovietica. Tra queste si è distinta Ljudmila Pavličenko, le cui memorie sono un documento toccante del clima di patriottismo e di eroismo delle donne sovietiche

Di Armida Corridori

 

Dal giogo larisseo con la sinistra
Bellona alzò la face, e a tutta forza
Colla destra scagliò l’asta tremenda,
che per lo vano ciel stridendo cadde,
e andò a ferir ne gli argini dircei:
scend’essa poi nel campo, e fra i guerrier
d’oro e ferro splendenti ella si mesce,
e freme in suon di militar tumulto.
Porge l’armi a chi parte, e applaude, e Ispira
Lena a’ destrieri, e da la porta affretta
I pigri e i lenti; e non che muova i forti,
breve virtude anche a’ codardi.

Stazio, Tebaide, IV,7-18
Traduzione di Cornelio Bentivoglio d’Aragona (1729)

PREMESSA

Tra le vicende pressoché sconosciute sul ruolo eroico delle donne nella storia della Seconda guerra mondiale, oggi si aggiunge un altro tassello, l’autobiografia di Ljudmila Pavličenko (1916-1974) che è stata la più implacabile e precisa cecchina dell’Armata Rossa soprannominata “Signora morte”.

È unanimemente riconosciuta come la sniper di maggior successo di tutti i tempi, eroe dell’Unione Sovietica e insignita dell’Ordine di Lenin.
Una foto in bianco e nero ci mostra una bella giovane donna in divisa, già sergente maggiore a Sebastopoli nel marzo 1942, armata del fucile MOSIN NAGANT M.1891/1930 con mirino PEM.
È una ulteriore conferma come é proprio nella brutalità della guerra che la donna si è scoperta capace di ricoprire mille nuovi ruoli. In Unione Sovietica chiamate a integrare i vuoti di effettivi alla fine saranno un milione e tra queste le 200 donne pilota del reggimento 588 per il bombardamento notturno e le 2000 cecchine di cui solo 500 sopravvissero.
Ljudmila Pavličenko è una di loro. Sono state donne guerriere, seguaci inconsapevoli di Bellona dea della guerra onorata in Cappadocia. Dopo la guerra mitridatica il suo culto era arrivato a Roma. Amava essere onorata solo con il sangue e veniva rappresentata con in mano una verga tinta di sangue.
Nel tempio a lei dedicato sorgeva una colonna presso la quale i sacerdoti addetti al suo culto, i Bellonàri, gettavano la lancia in segno di dichiarazione di guerra.
Finita la guerra, le donne sono tornate a casa ed è iniziato l’oblio e il silenzio. Nella sistemazione della memoria collettiva la loro presenza viene spinta fuori dal quadro, incoraggiando il luogo comune “la storia alla fine è stata fatta dagli uomini”.
A differenza delle altre invece la Pavličenko non ha taciuto la sua esperienza ma ha scritto la sua autobiografia che nel campo della letteratura dei tiratori scelti è la prima e unica testimonianza. Si tratta di un testo di notevole interesse militare e soprattutto di carattere psicologico, riguardante le reazioni della protagonista di fronte al dovere patriottico e al sacrificio, fino ai pericoli costanti di morte.

 

Medaglia dell’Ordine di Lenin

L’INIZIO

La famiglia di Ljudmila è una come tante. Il padre Michail Ivanovič Belov era un dipendente dell’Nkvd, Commissariato del popolo per gli affari interni, l’implacabile  polizia del regime comunista, la madre Elena Trofimovna Belova era un’insegnante di lingue.
Lei e la sorella più grande Valentina, trascorrono un’infanzia e una adolescenza spensierate, finché all’improvviso gli svaghi fanciulleschi finiscono, il primo amore adolescenziale le lasciano un figlio Rostislav e il cognome che porterà tutta la vita.
Nel frattempo la famiglia si è trasferita a Kiev e una sera il padre comunica alle figlie che ha trovato per loro un lavoro alla fabbrica Arsenal. Ljudmila non è contenta, ha frequentato la scuola per sette anni e vorrebbe continuare a studiare, ma la decisione del padre non può essere messa in discussione.
L’edificio della fabbrica si trovava vicino alla rive del Dnepr, le officine erano state fondate per ordine dell’imperatrice Caterina la Grande e la costruzione era durata diversi anni, dal 1784 al 1803.
Producevano cannoni, affusti, baionette, sciabole e altri equipaggiamenti militari, ma anche articoli necessari all’economia come aratri, carrozze e attrezzature per mulini e zuccherifici.
Valentina che aveva diciotto anni e il diploma di maturità fu assunta come ispettore avanzamento lavori, Ljudmila che aveva sedici anni e nessuna qualifica professionale, come operaia.
Furono necessari alcuni mesi per adattarsi al ritmo della fabbrica ma dopo l’apprendistato ebbe la qualifica di tornitore di sesto grado e fu ammessa al Komsomol.
La fabbrica offriva ai suoi operai l’opportunità di trascorrere il tempo libero in attività intelligenti, c’era un gruppo teatrale, uno studio d’arte che insegnava disegno, corsi di sartoria e cucito, un circolo di volo e di tiro a segno.
All’inizio Ljudmila viene convinta da un’amica a provare il volo. Frequenta le lezioni teoriche ma il primo volo fu un disastro. Quando la terra scomparve, fu presa da capogiri, nausea che saliva alla gola, comprese che l’aria non era il suo elemento, aveva bisogno di poggiare i piedi su un terreno solido.
Un pomeriggio, un compagno di lavoro che aveva prestato servizio nell’Armata Rossa ed era un appassionato di tiro, la convinse ad iscriversi al corso. Lei era convinta che fosse solo uno a caccia di sottane.
Il poligono dell’Arsenal a metà degli anni Trenta soddisfaceva tutti i requisiti necessari. C’era una stanza con banchi e sedie, una lavagna sulla parete per le lezioni teoriche, una cassaforte per le munizioni con armadietti a serratura per fucili e pistole.
C’era inoltre una linea di tiro che permetteva di sparare da varie posizioni: di riposo, in ginocchio, in piedi o sdraiati su tappetini. A 25 metri di distanza erano posizionati scudi di legno su cui erano montati i bersagli.
Il primo fucile che Ljudmila prese in mano fu un TOZ-8, semplice e affidabile, a colpo singolo e di piccolo calibro utile sia agli sportivi che ai cacciatori. Fu con questo fucile che nacque la sua passione per il tiro al piattello e iniziò l’apprendistato per tiratore scelto.
Oltre alle lezioni di storia delle armi da fuoco, quelle di balistica le insegnarono che il proiettile non vola dritto verso il bersaglio come si potrebbe pensare ma , a causa della gravità e della resistenza dell’aria, disegna un arco oltre a ruotare su se stesso durante la traiettoria.
A sorpresa, fin dai primi tiri dimostrò di avere capacità innate e quello che viene chiamato il “senso del bersaglio”. Il contesto della guerra farà emergere poi con forza queste qualità. Arrivata la primavera andò ad allenarsi in un poligono fuori città raggiungendo il livello del distintivo da Vorošilovskij Strelok secondo grado e in seguito prese parte alla gare di tiro cittadine dell’Osoaviachim.
Questa era una grande organizzazione militare, volontaria, pubblica e patriottica fondata nel 1927 che svolse un ruolo fondamentale nell’addestramento di giovani uomini e donne per il servizio militare.
Alle gare la ragazza si guadagnò un encomio speciale che appese al muro della stanza che divideva con la sorella. La famiglia non prendeva sul serio il suo entusiasmo per le armi e veniva garbatamente presa in giro. D’altra parte lei non sapeva spiegare cosa trovasse di affascinante in un oggetto dotato di una canna di metallo, un calcio di legno, una culatta, un grilletto e un mirino e perché fosse tanto interessante controllare il volo di un proiettile verso il bersaglio.
Nel frattempo segue un corso di specializzazione e inizia a lavorare come progettista capo all’officina meccanica, inoltre grazie all’aiuto del Komsomol ottenne l’autorizzazione a frequentare la facoltà operaia all’Università statale di Kiev, lavorando di giorno e studiando la sera.
Superati gli esami nel 1936 divenne titolare di una tessera studentesca presso la facoltà di Storia realizzando così il suo sogno nel cassetto anche se era la studentessa più anziana del corso.
Frequentava il secondo anno della facoltà di Storia, quando decise di rinfrescare le abilità di tiro. Era in corso la Guerra civile spagnola e pensava a come sarebbe stata una nuova guerra e se sarebbe potuta arrivare alla sua porta.
Su consiglio del primo istruttore iniziò a frequentare il corso biennale alla scuola per tiratori scelti dell’Osoaviachim da poco aperta a Kiev e presentata la documentazione necessaria, fu ammessa. L’organizzazione dei corsi aveva una impostazione quasi militare e i cadetti con la votazione finale “ottimo” venivano inseriti in apposite graduatorie negli uffici di reclutamento.
Erano altresì convocati periodicamente per corsi di aggiornamento e gare di tiro a vari livelli. Fino alla Grande Guerra patriottica, gli assi del fucile esperti in grado di colpire un bersaglio al primo colpo erano forse non più di 1.500.
Il fucile in dotazione all’Armata Rossa in quel tempo era il MOSIN a cartuccia, modello 1891/1930, spesso chiamato “fucile a tre linee”. Rispetto al Toz-8 il rinculo sulla spalla era più pesante, l’impugnatura del calcio meno comoda e a causa del peso e della lunghezza era difficile sparare in piedi.
Un certo periodo di tempo era destinato allo studio della meccanica del fucile, gli allievi dovevano imparare a smontarlo e rimontarlo a occhi chiusi. Il fucile da cecchino differiva dal modello comune solo per pochi dettagli, in particolare per un telescopio Emel’janov ( PE) montato sulla canna.
Agli allievi furono mostrati anche i nuovi modelli di armi in dotazione all’Armata Rossa: il Simonov (AVS-36) e il Tokarov ( SVT-38) e altri fucili semiautomatici che presentavano però meccanismi molto più complessi rispetto al Mosin.
Nella scuola di Kiev famosa ormai come quella di Mosca e Leningrado, arrivò un insegnante molto bravo Aleksandr Potapov, che Ljudmila ricorderà sempre con stima, che mise a disposizione degli allievi la sua esperienza e che in un opuscolo aveva illustrato osservazioni, riflessioni sulla filosofia del cecchino.
Riteneva che la conoscenza teorica e la pratica di tiro fossero assolutamente necessarie ma non sufficienti per formare un vero professionista. Lui o lei dovevano avere oltre a un buon occhio anche il carattere giusto: calmo, equilibrato, persino flemmatico.
Il cecchino deve essere un cacciatore paziente, ha a disposizione un colpo solo e può pagare l’errore con la vita. Potapov spiegava che non dava alcuna importanza alla distinzione uomo-donna tra gli allievi, anzi riteneva che le donne fossero più adatte.
Le donne erano resistenti e attente, possedevano un intuito naturale, erano precise nell’eseguire le istruzioni, avevano inventiva per mimetizzarsi, requisito questo fondamentale per un cecchino sul campo di battaglia.


Donne cecchino dell'Armata Rossa


La scuola dava molto peso alle lezioni di teoria, alle leggi della balistica come il concetto di “millesimo di radiante” per la stima delle distanze. Serviva a calcolare in fretta la portata in base agli angoli grazie a una particolare formula e ai reticoli dei mirini telescopici PE, dei binocoli e dei periscopi.
Potapov portava spesso gli allievi in campagna per lezioni supplementari sulla mimetizzazione oppure per giocare a Donysko, il gioco del fondo della bottiglia. Occorreva mettere una bottiglia su un bastone biforcuto a una distanza di circa 20 o 30 metri dalla linea di tiro.
Il proiettile doveva entrare nel collo della bottiglia e senza danneggiare i lati uscire dal fondo frantumato.
Un giorno venne il turno di Ljudmila. Il PE permetteva un ingrandimento 4X, ciononostante il collo della bottiglia sfocato tra le tre linee nere era solo un puntino marcato. L’unica speranza era fare affidamento sull’intuizione e su quel “senso del bersaglio” che un cecchino sviluppa durante l’addestramento.
Un errore comune tra i principianti era quello di passare troppo tempo a prendere la mira ma lei non lo commetteva più, così tutto andò come doveva. Quel giorno nella gara del bosco raggiunse il punteggio di tre ”fondi” ricevendo i complimenti dell’istruttore: «Ben fatto, fanciulla dalle lunghe trecce »!
Si diplomò con ottimi voti e la festa per il diploma fu chiassosa e divertente, ma si parlò anche del futuro. Alcuni ragazzi intendevano fare domanda per entrare alle accademie militari, le ragazze avevano in programma di proseguire con il tiro, prendere parte alle competizioni e conquistare il titolo di maestro dello sport dell’Unione Sovietica.
È il 1939 e questi giovani non possono immaginare la svolta drammatica che tra non molto prenderà la loro vita.

 

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Il 1° settembre 1939 la Germania nazista attacca la Polonia, il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania. Ha inizio la Seconda Guerra mondiale.
La Prima guerra mondiale aveva inchiodato gli eserciti nelle trincee: le difese si erano dimostrate molto più agguerrite dei mezzi d’attacco e nessuno era riuscito ad avanzare e ad avvicinarsi alle linee nemiche.
Solo verso la fine del conflitto erano stati sperimentati con successo i due grandi sistemi d’arma moderni: il carro armato e l’aereo. Negli ultimi vent’anni tutti gli eserciti si erano dotati di questi armamenti e pertanto si riteneva di nuovo possibile la guerra di movimento.
I tedeschi avevano compiuto un passo ulteriore creando la Panzerdivisionen, le divisioni corazzate. Le funzioni tradizionali di una divisione: l’artiglieria, la fanteria e i servizi logistici, i reparti tecnici di supporto erano state motorizzate e blindate.
È evidente che in questo modo, i carri armati potevano avanzare velocemente sempre assistiti e riforniti di uomini e mezzi, inoltre le divisioni corazzate e l’aviazione operavano in modo coordinato, in questo modo era possibile la “guerra lampo”.
Nell’aprile del 1940 furono occupate la Danimarca e la Norvegia, a giugno la Francia, mentre l’Inghilterra subiva massicci bombardamenti dall’aviazione tedesca. Nei mesi estivi del 1940 la Germania sembrò sul punto di vincere la guerra. Perse invece diverse settimane preziose perché Hitler riteneva di poter avviare trattative di pace con gli inglesi e concludere un accordo in modo da avere la mani libere a Oriente.
Churchill, a capo del governo, rifiutò ogni ipotesi di resa o di accordo diventando il simbolo della volontà inglese di resistere a ogni costo.
La guerra aerea sulle città inglesi ripeteva ciò che era successo a Guernica nel 1937 che aveva inaugurato una terribile novità della guerra moderna: i bombardamenti contro le popolazioni civili. L’offensiva tedesca tuttavia fallì e rappresentò il primo vero ostacolo sulla strada di Hitler.
Mentre gran parte dell’Europa è già sconvolta dalla guerra, Ljudmila nel gennaio 1941 superò tutti gli esami del quarto anno alla facoltà di storia e la direzione della Biblioteca storica statale di Kiev le offrì l’opportunità di una trasferta per quattro mesi presso la Biblioteca pubblica di Odessa, una delle più antiche dell’Ucraina, come ricercatrice.
Pensava che avrebbe potuto dedicarsi alla stesura della tesi di laurea sull’adesione dell’Ucraina alla Russia nel 1654 e sul trattato di Perejaslav, così l’anno seguente avrebbe conseguito il diploma di istruzione superiore.
Su consiglio del padre, tra i documenti da portare mise anche l’attestato della scuola di tiratori scelti e l’opuscolo del suo insegnante Potapov. Una premonizione?
Il 22 giugno 1941 a Odessa era una magnifica domenica di sole, faceva caldo e insieme ad una amica e al fratello maggiore di lei avevano trascorso la mattina al mare. Il programma della giornata prevedeva il pranzo poi il teatro per ascoltare la Traviata di Verdi.
Mentre aspettavano le pietanze ordinate sentirono un annuncio dall’altoparlante in strada, il compagno Vjačeslav Molotov avrebbe parlato alla nazione tra poco. Ciò che disse aveva dell’incredibile: alle quattro di quella mattina, la Germania aveva attaccato l’Unione Sovietica. L’«Operazione Barbarossa» era iniziata.
Sul momento fu difficile dare un senso alle parole ascoltate. Intanto la strada si era riempita di gente che si accalcava sotto l’altoparlante e discuteva animatamente, non si intravedevano però segni di panico, tutti affermavano sicuri:« Schiacceremo i nazisti»!
Il dittatore tedesco non aveva mai nascosto che lo scopo principale del Terzo Reich era proprio la distruzione del comunismo e l’assoggettamento dei popoli slavi considerati inferiori, per dare alla Germania quello «spazio vitale» di cui riteneva che il popolo tedesco avesse diritto.
L’avanzata tedesca fu un grande successo, in poche settimane la Wehrmacht sfondò tutte le linee nemiche e annientò o prese prigionieri decine di divisioni e milioni di soldati sovietici internati nei campi di prigionia così duri che ben pochi ne uscirono vivi.
D’altra parte le indicazioni di Hitler erano state chiare: condurre a Est, nella Russia occidentale una guerra di sterminio.
A Odessa come in tutto il Paese era scattato l’ordine di mobilitazione, erano soggetti a coscrizione i nati tra il 1905 e il 1918 abili al servizio militare. Sicura di essere arruolata, Ljudmila nata nel 1916, si presentò al commissariato militare nel distretto di trasporto acqueo di Odessa.
Nella borsetta portava il passaporto, la tessera studentesca e l’attestato della scuola per tiratori scelti dell’Osoaviachim di Kiev. Un commissario dalla voce roca e già stravolto dalla stanchezza la scambiò per una giovane donna che andava arruolata nel personale medico.
A quel punto lei mise sulla scrivania l’attestato da cecchino ma il commissario irritato le fece presente che la specializzazione “cecchino” non era presente nella sua lista e la mandò via.
Il giorno successivo trovò un atteggiamento diverso e riuscì a compilare i documenti di arruolamento. Dopo un lungo viaggio su uno speciale convoglio militare arrivò nel territorio della Bessarabia tra le unità di retroguardia della XXV divisione fucilieri Čapaev.
Indossò la sua prima uniforme militare e diventò un soldato del 54° reggimento fucilieri Stepan Razin dell’Armata Rossa. Nello zaino finì il vestito con il colletto di pizzo e le comode scarpe di tela con i lacci, via le belle trecce. La vita da civile era finita!
Ma c’era un ultimo passaggio , il giuramento davanti al vessillo del 54° e la firma sul foglio con il testo stampato del giuramento stesso. Ora erano persone la cui vita apparteneva completamente alla patria.
Le reclute vennero assegnate alle varie unità e lei finì nel primo battaglione, seconda compagnia, primo plotone. Il comandante riteneva che la guerra non fosse «roba da donne» e mostrò un atteggiamento nello stesso tempo perplesso e diffidente, nonostante l’attestato di “cecchino”.
Per il momento, insieme alle altre reclute dovette scavare trincee, rimettere in sesto le vie di comunicazione dopo il fuoco d’artiglieria e i bombardamenti.
Il 22 giugno 1941, i rumeni, alleati della Germania nazista tentarono più volte di attraversare il fiume Prut ma furono respinti perdendo circa 1.500 uomini. Nei primi giorni di luglio avendo la superiorità di uomini e mezzi lanciarono un’offensiva e il fronte meridionale iniziò a cedere creando la “sacca della Bessarabia”.
Fu necessaria l’evacuazione delle divisioni fucilieri, ma insieme ai soldati anche la popolazione fu costretta ad abbandonare i villaggi, lunghe file di carri carichi degli effetti personali insieme agli animali.
I nazisti compivano incursioni regolari colpendo indifferentemente persone e cose. Non era una guerra “normale” in cui si confrontavano eserciti di pari forza, somigliava più a uno sterminio deliberato.
Le persone vedendo che i soldati non erano di nessun aiuto reagivano con rabbia: «Fate schifo! Perché non combattete il nemico? Perché non rispondete al fuoco?» Non sapevano che i soldati non avevano le armi necessarie e davanti a tanta devastazione alcuni di loro si demoralizzarono, persero la fiducia nella vittoria e nel futuro.
Ma Ljudmila pensava alla vendetta, gli invasori che avevano violato la terra natia dovevano essere puniti non appena fosse riuscita a mettere le mani su un’ arma. Finalmente un commilitone ferito le passò un Mosin standard, modello 1891/1930, un “tre linee”.

 

LE PRIME MISSIONI

L’8 agosto 1941 Beljaevka fu il luogo e il momento del suo “debutto” da cecchino in tempo di guerra. Il villaggio fondato dai cosacchi Zaporožiani vicino al lago Bianco, si trovava a circa 40 chilometri da Odessa. Sul lato orientale del villaggio si stabilì il 1° battaglione. Tra la vegetazione era visibile una grande casa con un portico occupata da soldati rumeni.
Ljudmila ha l’incarico di colpire, ma qualcosa disturba la sua concentrazione. Si dice che può succedere quando un cecchino deve sparare per la prima volta a un nemico vivo, dopo essersi esercitato sempre su bersagli di cartone.
Questa prima missione non ha successo, inoltre ha impegnato troppe cartucce che non si possono sprecare. Lo stato d’assedio di Odessa fu dichiarato l’8 agosto. Il cuore del battaglione era la II compagnia che ora disponeva di armamenti sufficienti recuperati anche in combattimento.
Lo spirito combattivo dell’unità era molto forte in quanto gli appartenenti erano tra i venti e i venticinque anni, vicini non solo per età ma anche per istruzione, educazione, arruolati da imprese dell’industria pesante o come lei studenti volontari delle università ucraine.
Si fidavano gli uni degli altri tenendo presente la massima del generale Aleksandr Suvorov: «Sacrifica te stesso, ma salva i tuoi compagni!» Tra una battaglia e l’altra si leggevano le lettere giunte da casa e si rispondeva, chi aveva un orecchio musicale e una buona voce dava inizio al canto seguito dagli altri.
Era un modo per vincere l’ansia prima di un attacco, prima che la voce del sottotenente Ljubivyj tuonasse «Compagnia, avanti! Per la patria, viva Stalin!» e partivano tutti alla carica.
Nonostante il coraggio si combatteva contro un nemico superiore per l’artiglieria e per le grandi scorte di munizioni. I cannoni russi potevano rispondere solo con una salva ogni tre sparate dai tedeschi e dai rumeni.
Una mattina un colpo di mortaio colpì il parapetto della trincea russa. L’onda d’urto ridusse in mille pezzi il fucile di Ljudmila che fu scaraventata sul fondo della trincea e ricoperta di terra. I compagni riuscirono a tirarla fuori e portarla a Odessa in ospedale, non è ferita nel corpo ma è sotto shock.
Quando tornò al posto di comando del 1° battaglione  per riprendere servizio trovò una sorpresa: la prima promozione, è caporale dopo solo un mese e mezzo dall’inizio della guerra. Il comandante le porge una scatolina grigia di cartone, dentro ci sono le mostrine del nuovo grado che dovevano andare sui risvolti color lampone agli angoli superiori del colletto. Chissà dove aveva trovato quegli oggetti tanto minuscoli nella steppa crivellata di proiettili e solcata dalle trincee. Inoltre riceve un nuovo Mosin da cecchino al posto di quello vecchio.
Purtroppo il teatro stesso della guerra, una steppa pianeggiante con sporadiche colline, quasi priva di alberi e pochi centri abitati, presentava scarse occasioni di allestire nascondigli per i cecchini e per mimetizzarsi. Occorreva trovare altri metodi per combattere l’invasore.
In generale la modalità era la seguente: il sopralluogo si effettuava di notte con un gruppo di tre soldati. Uno portava una mitragliatrice leggera da fanteria, uno era il cecchino abbattitore, uno l’osservatore. Tutti portavano le sacche delle maschere antigas appese alle cinture zeppe di cartucce e granate, una pistola TT (Tula-Tokarev) e i fucili. Veniva scelto come nascondiglio un boschetto di arbusti piuttosto alto e fitto che si trovava a circa 600 metri dalla prima linea di trincea del 54° reggimento. Quando Ljudmila e compagni uscirono dal rifugio dopo mezzanotte per andare nel nascondiglio preparato, tutto era tranquillo.
La placida, calda e dolce notte del Mar Nero cingeva la campagna. Il resto della notte servì a preparare le postazioni, scavare trincee, costruire piccoli parapetti rinforzati con pietre e torba dove piazzare i fucili calcolando le distanze con molta attenzione.
All’alba il nemico diventava visibile e ci si rendeva conto che gli obiettivi erano molti, occorreva dividersi il “lavoro”. Alle dieci venne aperto il fuoco, i rumeni si spaventarono a morte non capivano da dove provenissero gli spari, correvano da tutte le parti scatenando il panico con urla selvagge.
Risultato: sedici uccisi da Ljudmila, dodici da Pëtr Kolkol’cev. La notte successiva tornarono nello stesso posto e a mezzogiorno aprirono il fuoco, dieci uccisioni per lei  compresi due ufficiali e otto per lui. Tornare nello stesso nascondiglio una terza volta non sarebbe stato prudente, ne fu trovato un altro. Il successivo fu una casa bianca semidistrutta e abbandonata situata nella terra di nessuno a circa 400 metri dalla boscaglia. Questa volta Ljudmila colpì ventisei rumeni, il suo totale complessivo si avvicinava a sessantacinque.
Racconta che nei primi mesi di guerra non si aspettavano decorazioni. Il compito urgente era quello di difendere la propria terra dagli invasori. Più tardi, nel 1943 dopo l’istituzione dell’Ordine della Gloria, la seconda e la terza classe furono concesse a quei tiratori scelti che avevano abbattuto dai dieci ai cinquanta-settanta soldati e ufficiali nemici.
Quattordici donne diplomate alla Scuola centrale per cecchini furono insignite di una doppia decorazione di prima e seconda classe . Solo il sergente maggiore Nina Pavlovna Petrova, sebbene senza diploma, ricevette tutte e tre le classi dell’Ordine della Gloria, le prime assegnate postume per i 120 nazisti abbattuti.
Nel 54° reggimento fucilieri non era la Pavličenko l’eroina dell’assedio di Odessa, bensì la mitragliera Nina Onilova. Cresciuta in un orfanatrofio, operaia in una fabbrica di Odessa, a vent’anni si era arruolata volontaria.
All’inizio aveva prestato servizio in una compagnia medica poi aveva chiesto di essere trasferita in un’unità sul campo in quanto aveva studiato da mitragliera nell’Osoavichim, fu arruolata nello stesso battaglione della Pavlicenko che la conosceva ma non fu mai testimone diretta delle sue gesta.
Nina Onilova soprannominata la «seconda Anja del Čapaev», sembrava poco più che una ragazzina. Viso tondo e allegro, occhi ridenti e affascinanti, capelli corti alla maschiaccio, in battaglia utilizzava una tattica innovativa che non sempre era apprezzata dai superiori ed era costretta a seguire alla lettera le istruzioni di servizio.
Il giornale della XXV divisione, il Krasnyj  Boec ( Il soldato dell’Armata Rossa), pubblicò racconti avvincenti delle gesta di quella ragazza coraggiosa e il personale politico ne seppe sfruttare abilmente l’immagine.
Non c’è dubbio che le prodezze di un mitragliere erano colme di azione e apparivano più interessanti rispetto al cecchino che sparava da un nascondiglio. Una raffica e una fila di nemici cadeva subito a terra.
Il tiro di un cecchino che abbatteva un ufficiale durante un’avanzata non poteva essere rappresentato nella stessa maniera pittoresca. A questo punto si pone una domanda: che razza di persona doveva essere un cecchino? Persona taciturna quasi cupa, con un’astuzia innata e una pazienza certosina. Non può descrivere né rivelare il metodo usato per dare la caccia al nemico avendo firmato la clausola di riservatezza.
Il compito del cecchino era molto difficile e impegnativo. Richiedeva ore di attenta osservazione, si doveva calare nei panni dell’avversario tornando sul posto più e più volte, sempre pronto ad andare avanti senza alcuna garanzia di successo.
È evidente che un soldato medio non avrebbe avuto la tenacia necessaria. L’attitudine di Ljudmila Pavličenko era in verità una stranezza della natura, quel caso in cui qualcuno ha quella giusta combinazione di coordinazione tra occhio e mano, stabilità muscolare, ottima vista e pazienza.
Infine, e se ne discute spesso, c’è un quid, difficile da stabilire, più nebuloso, che non tutti possiedono e che distingue un cecchino da un normale fuciliere. Forse un istinto innato di cacciatore, non sempre presente negli uomini e ancora più raro nelle donne.
La Pavličenko possedeva tutto questo e in più era presente in lei una fede incrollabile nel proprio paese e nella legittimità della causa sovietica che non ha mai vacillato, la sua straordinaria determinazione le ha consentito di fronteggiare difficoltà quasi insormontabili.


Anche le donne combattono nella battaglia di Odessa


L’ Unione Sovietica, come già esposto, è stato l’unico Paese a impiegare donne in prima linea nella Seconda guerra mondiale. Si pose pertanto anche un problema linguistico come “carrista”; “soldato di fanteria” o “mitragliere”, di non esisteva il corrispondente genere femminile perché si trattava di attività che mai prima di allora avevano coinvolto le donne.
Così nella guerra sono nate parole nuove. Ad esempio: pechotinec, soldato di fanteria avrà come corrispondente femminile ženščina-pechotinec, donna soldato di fanteria.
Nel corso della guerra, l’esercito russo dovette rivalutare via via il ruolo dei cecchini da quello di semplici fucilieri che sarebbero dovuti avanzare assieme alla fanteria, a essere considerati i migliori specialisti in prima linea per un motivo : la loro efficacia.
È impossibile eseguire un calcolo preciso del numero di tedeschi uccisi dai cecchini russi. C’è comunque un dato impressionante: 2000 donne cecchine, diplomate nelle scuole per tiratori scelti, nel corso del conflitto hanno raggiunto un totale- dato ufficiale- di 12.000 uccisioni, mentre i primi dieci maschi ne contavano 4.300.
Se si guardano poi i combattimenti in tutta l’Europa occidentale, il cecchino britannico con il punteggio più alto contava un totale di 119 uccisioni. Si comprende come i numeri dell’esercito russo siano impressionanti.
Nel settembre 1941 continuava la difesa di Odessa e Ljudmila dopo un’azione molto efficace contro un nido di mitragliatrici nemiche, ricevette un fucile di precisione SVT-40 con mirino telescopico. Il tubo metallico recava l’incisione:” 100. Per i primi cento” seguita dal suo nome, dal grado e da quello del generale Petrov.
Alcuni giorni dopo giunse un ordine dal quartier generale della divisione che le assegnava il grado di sergente.
Il 2 ottobre 1941 comparve tra le linee una nuova arma per il momento segreta. Un sistema di lanciarazzi BM-13 che era stato istallato sul telaio dei camion ZIS-6. Era in grado di sparare sedici proiettili del peso di 42,5 chili in otto-dieci secondi. I razzi contenevano liquido esplosivo, pertanto all’impatto tutto andava in fiamme: terra, pietra e metallo.
Queste istallazioni missilistiche diventarono note tra i soldati con il nome di Katjuša. Il villaggio di Tatarka era distante 10 Km da Odessa. Lo scontro che avvenne fu furibondo e impari, quattro divisioni sovietiche contro diciotto rumene. La Pavličenko ebbe l’incarico di istituire un corso accelerato per addestrare un gruppo di fucilieri, scegliendo poi i soldati più in gamba dell’intero reggimento.
È superfluo sottolineare la loro reazione poco ortodossa quando si accorsero  che il sergente Pavličenko era una donna. Lei prese in mano la situazione in modo molto deciso e ne rimandò alcuni alle loro unità perché poco adatti.
Dal comando generale arrivò l’ordine di resistere il più possibile nella difesa di Tatarka, Sulla strada verso una fattoria, il sentiero era invaso dai corpi dei soldati nemici con gli elmi a scodella, mezzi, veicoli corazzati abbandonati.
Ljudmila si avvicinò alla casa e bussò alla porta dopo essersi qualificata. Apparve la padrona di casa sorpresa di vedere dei soldati comandati da una donna che raccontò come per due settimane le forze di occupazione avevano potuto agire indisturbate in modo vergognoso.
La donna iniziò a rimproverare le unità militari dell’Armata Rossa colpevoli di essersi ritirate in fretta il settembre precedente, lasciando la popolazione locale alla mercé dei fascisti.
La donna aveva ragione e Ljudmila ammise la responsabilità dei comandi ma rispose che la guerra non  era finita e che nonostante tutto si stava tenendo la linea di difesa a Odessa da oltre due mesi. I cecchini del 54° reggimento fucilieri Stepan Razin avrebbero teso un’imboscata e seppellito due o trecento selvaggi di re Michele.
Poi sulla porta si presentò Marija la figlia diciassettenne della contadina che era stata stuprata e chiese a Ljudmila :«Spari bene?», lei rispose «Sì. Ho un fucile con ottiche speciali». La ragazza : «Uccidili. Quelli che vedi, uccidili tutti!». «Lo farò. Te lo prometto».
Intorno alla metà di settembre nel settore meridionale si venne a creare una situazione molto grave. La linea di difesa russa era bombardata con i mortai, a Ljudmila si inceppò il fucile e venne colpita sul viso da una scheggia sotto l’attaccatura dei capelli nel lato sinistro.
Il sangue scorreva copioso dalla fronte ne sentiva il sapore salato in bocca. Viene soccorsa e portata alla stazione di primo soccorso medico e poi in ospedale. Nel cortile  incontrò il comandante Ivan Petrov che dopo averla salutata le chiese a quanto ammontava al momento il bottino dei nemici uccisi e lei rispose 187. Le comunicò di prepararsi ad essere trasferita, si andrà a Sebastopoli via mare.
Come era possibile abbandonare la città in mano al nemico? Dall’agosto 1941 che Odessa veniva difesa era convinta che il comando supremo non avrebbe  mai dato un ordine simile ma avrebbe inviato rinforzi, armi, munizioni e provviste.
A Mosca in quel momento Marina Raskova,  la donna più famosa dell’aviazione sovietica, un mito, una leggenda vorrebbe formare gruppi di donne pilota. Non ricevendo ascolto dagli alti comandi, aveva deciso di rivolgersi direttamente  a Stalin.
Gli ricorda che nelle scuole e nelle fabbriche le ragazze come i loro compagni hanno frequentato gli aeroclub, hanno imparato a usare il paracadute e la mitragliatrice, pertanto perché nell’Armata Rossa dovevano rimanere confinate nel ruolo di infermiere, telefoniste, vivandiere?
Come accade spesso la necessità costringe a cambiare anche le scelte politiche, quindi di fronte ai dubbi e alle obiezioni, secondo la leggenda la Raskova avrebbe risposto a Stalin :«Una donna può tutto!» Qualche giorno dopo l’8 ottobre 1941 venne promulgato l’ordine 0099 che stabiliva la costituzione di tre reggimenti solo femminili di donne pilota: Marina aveva vinto.
L’8 febbraio 1942 si costituirà il reggimento 588 per il bombardamento notturno. Duecento giovano donne voleranno la notte, tutte le notti, sugli aerei Polikarpov per bombardare le linee nemiche. I tedeschi le definiranno Nachthexen, streghe della notte, effettueranno 23.000 voli e 1.100 notti di combattimento.

 


Marina Raskova e le "Streghe della notte

L’ASSEDIO DI SEBASTOPOLI

Il convoglio con le truppe evacuate da Odessa arrivò a Sebastopoli il 17 ottobre 1941. La città si presentò candida, magnifica , intatta, con le imponenti mura di pietra bianca. La cupola blu della cattedrale di San Vladimiro brillava sulla collina centrale della città, sepoltura di quattro ammiragli del primo assedio.
La città era caduta nella battaglia decisiva durante la guerra di Crimea (1853-1856) contro Francia, Gran Bretagna e il contingente piemontese mandato da Cavour che sperava così di guadagnare l’appoggio delle potenze europee alla causa italiana.
Ljudmila che soffriva ancora dei postumi della ferita alla testa rimase in città mentre la sua divisione fu spostata al Nord della penisola di Crimea per fermare l’avanzata tedesca sulle linee di ISUN. Ne approfittò per visitare i luoghi culturali ancora aperti come il museo della flotta del Mar Nero.
Rimase colpita dal dipinto panoramico di Franz Roubaud, Assedio di Sebastopoli di grande impatto visivo. La città, fondata per ordine dell’imperatrice Caterina la Grande aveva una storia più antica. Alla distanza di 12 chilometri, visitò le rovine della fortezza genovese Cembalo e l’antica città di Chersoneso Taurica fondata nel V secolo a.C.


Franz Roubaud,
L'assedio di Sebastopoli, mt. 14x1,5, 1904


Il 26 ottobre, l’XI armata tedesca comandata dal generale Erich von Manstein aveva raggiunto la penisola ma venne fermata. Quel giorno è considerato l’inizio dell’assedio d Sebastopoli.
In attesa di sapere dove sarà assegnata , un pomeriggio si presentarono due assistenti della biblioteca della marina che nel solito giro settimanale raccoglievano i libri distribuiti in precedenza, offrendone di nuovi. Così scelse Racconti di Sebastopoli di Lev Tolstoj che aveva già letto da bambina.
Era passato a malapena un secolo e nuovi conquistatori si avvicinavano alla città con le medesime intenzioni. Il giovane tenente di artiglieria, il conte Tolstoj aveva preso parte alla prima difesa della città. Ora, avendo vissuto la battaglia di Odessa, era in grado di comprendere con cognizione di causa la perspicacia con cui lo scrittore descriveva i sentimenti di un uomo che avvertiva per la prima volta un pericolo mortale in battaglia.
Tolstoj aveva descritto soldati e ufficiali dell’esercito imperiale, facendo venire fuori lo spirito militare russo basato sulla semplicità e l’ostinazione. Ma rimase colpita anche dalla descrizione del clima e dei paesaggi e si rese conto che fino a quel momento aveva operato solo in un paesaggio pianeggiante e stepposo con visibilità buona e distanza dal bersaglio facilmente determinabile.
Tirare dalle colline ora sarebbe stata un’altra cosa.
A sorpresa il generale Petrov le comunica che ha ottenuto il grado di sergente maggiore e comanderà un plotone di cecchini da addestrare. Con particolare soddisfazione attaccherà ai risvolti  della giubba i tre triangoli color rubino scuro del nuovo grado, avrà in dotazione la Tula-Tokarev, la TT che diventerà il suo talismano e che porterà sempre con sé.
Né i russi, né i tedeschi prendevano prigionieri i cecchini che venivano fatti fuori sul posto. Questo voleva dire che in caso di pericolo si faceva rotolare una granata ai piedi del nemico, si sparavano sette proiettili della TT a chi si avvicinava troppo, l’ottavo proiettile era per sé.
Vengono allestite le linee di tiro per i difensori della città. Trincee, camminamenti, rifugi, postazioni per l’artiglieria e le mitragliatrici. Ljudmila giunta alle postazioni del reggimento, sperava di rivedere tutti i suoi compagni vivi dato che non sapeva come fossero andate le battaglie di fine ottobre a nord della penisola.
Incontrò il caporale Fëdor Sedych che la informò del ferimento del capitano Sergienko. Quando era a capo del 1° battaglione aveva dimostrato di essere un ufficiale esperto e capace e si era dimostrato sensibile per le questioni personali. In quanto donna, prestare servizio nell’esercito significava dover affrontare non poche difficoltà. Nei confronti dei maschi bisognava tenere un comportamento severo, imparziale, irreprensibile. Mai amoreggiare con qualcuno!
I problemi però non erano causati mai dai soldati semplici, ma dai “compagni ufficiali” che tendevano ad approfittare del loro status e della clausola del codice militare secondo cui l’ordine di un ufficiale in comando doveva essere eseguito, pena dover rispondere per inadempimento dei doveri in conformità alle leggi del diritto bellico. Per questi motivi lei preferiva trascorrere più tempo in prima linea perché la possibilità di attirare l’attenzione di qualcuno con le stellette o le striscette sul colletto erano minime. Le difficoltà ad essere accettata in quanto donna, si presentarono puntuali quando arrivarono i rinforzi.
Costituiti in gran  parte da truppe dei battaglioni di fanteria della marina, messi insieme in fretta e furia a Sebastopoli alla fine di ottobre. Ragazzi volenterosi ma inesperti, che, vestiti con giacca da marinaio e pantaloni “larghi come il Mar Nero”, erano stati assegnati al distaccamento del Sergente maggiore Pavličenko.
Come è ovvio i ragazzi non si aspettavano che fosse una donna, una donna al comando di un plotone di cecchini! Impossibile.


Sebastopoli, 1942


Nel frattempo si venne a sapere che nel villaggio di Mekenzija si era insediato una sorta di quartiere generale tedesco composto da una cinquantina tra soldati e ufficiali, c’erano anche Tatari con le fasce bianche della Polizei al braccio, collaborazionisti. Mentre era in esplorazione, Ljudmila e il suo gruppo furono avvicinati da un uomo anziano che per poco non fu colpito. Era un guardia boschi, nato in Crimea da una famiglia di armeni russificati che per cento anni aveva servito fedelmente la famiglia imperiale dei Romanov proprietaria di vasti possedimenti nella penisola. I tedeschi avevano ucciso tutta la sua famiglia e si erano insediati nella sua casa. Animato da uno spirito di vendetta si offrì come guida, conosceva tutti i sentieri e si rivelò un aiuto insperato e prezioso.
Ricevuta l’approvazione del comando, venne messo a punto il piano per l’incursione. Dopo le steppe desertiche di Odessa, la foresta sembrava un luogo ideale per mimetizzarsi ma tutt’altro che adatta per il tiro di precisione. Dove sarebbe finito il proiettile? Da dove sarebbe spirato il vento? Com’era possibile calcolare correttamente la distanza dal bersaglio in mezzo a gole invase dai cespugli?
«Dal sicomoro piegato al pozzo ci sono 85 metri» disse piano il vecchio, «ricordatelo, ti tornerà utile». A giudicare dalla mappa , la terra di nessuno terminava dopo un pozzo e da quel punto iniziava il territorio occupato dai nemici.
Fu un’azione complessa ma il presidio tedesco fu spazzato via, e si rivelò un buon bottino: armi, documenti tra cui un libro di codici, alimenti introvabili ormai a Sebastopoli. Come faceva sempre, Ljudmila tagliò una spallina e la Croce di ferro dell’ufficiale con il suo coltello finlandese, prese la pistola Walther P 38 dalla fondina di pelle nera alla vita dell’uomo.
Le condizioni di vita al fronte migliorarono molto con la messa in servizio di un bagno pubblico e di una lavanderia, finalmente ci si poteva lavare e cambiare la biancheria, così il flagello delle trincee, i pidocchi, non si diffusero oltre misura durante l’assedio di Sebastopoli.
La città continuava a essere fortificata, vengono approntate opere di difesa che si sperava molto efficaci: profondi e ramificati camminamenti scavati nel suolo pietroso e che permettevano ai soldati di stare in piedi.
Lei aveva dei luoghi prediletti: una fossa tra boschetti di ginepro dove la terra era morbida e calda e il cui odore gradevole non era tollerato dai parassiti. Di conseguenza niente zanzare, vespe, formiche molto fastidiosi per un cecchino che doveva stare fermo per ore. La selva con gli alberi cresciuti a gruppetti e i serti di rose  creavano  l’effetto di una tenda di pizzo adagiata ai piedi degli olmi, degli aceri e della acacie, il fumo di uno sparo si sarebbe perduto tra i rami.
Il fucile avuto in dono dal generale Petrov non era adatto a cacciare nella foresta per cui era preferibile un “tre linee” molto più affidabile, aveva uno sparo più silenzioso e preciso e un mirino PE che permetteva un ingrandimento quadruplo.
Intorno alla metà di dicembre i combattimenti diventarono più feroci sia in mare che sulla terraferma. I tedeschi schierarono 27 armi per ogni chilometro, i sovietici soltanto 9; i tedeschi disponevano di 200 bombardieri e caccia, i sovietici solo 90 aerei.
La data fissata dai nazisti per l’entrata in città era il 21 dicembre in coincidenza con i sei mesi dall’inizio dell’invasione. Sebastopoli era in una situazione difficilissima e nel frattempo la Wermacht era arrivata alle porte di Mosca e Leningrado, sembrava che anche l’Unione Sovietica stesse per crollare.
In verità la guerra lampo era giunta al capolinea. Il dominio del carro armato e della divisione corazzata non era più incontrastato. L’artiglieria russa aveva aumentato la rapidità di tiro e la potenza di fuoco, inoltre i razzi stavano sostituendo le granate.
Il lanciarazzi multiplo “Katiuša”era capace ormai di distruggere anche i carri nemici. In caso di offensiva il plotone dei cecchini doveva stare al fianco dei mitraglieri. Alla Pavličenko fu permesso di occupare una trincea nascosta già pronta in modo da dirigere il fuoco verso i nidi delle mitragliatrici e i mortaisti che avanzavano.
L’azione ebbe successo, i soldati vennero colpiti e il fuoco della mitragliatrice si interruppe. La risposta del battaglione di ricognizione tedesco fu rabbiosa e immediata e lei non riuscì a raggiungere per ripararsi , un buco di riserva più profondo e venne ferita da una scheggia di mortaio tra la colonna vertebrale e la scapola destra.
Perse conoscenza, poi venne ridestata dal freddo. Era sola, il crepuscolo si avvicinava e nella foresta adesso era tutto tranquillo, solo in lontananza risuonava il rombo dei cannoni. Come era finito lo scontro? Dove erano i compagni di reggimento? La stavano cercando?
Pensava di stare per morire e si prepara. Rivede con gli occhi della mente la sua famiglia che ora viveva nella lontana Udmurtia, parla con la madre e le sembra di sentire la voce del suo bambino che la chiama, non lo vede da sei mesi e sta crescendo lontano da lei. Poi con la coscienza obnubilata le sembra di intravedere la scintillante armatura di un vichingo e una voce: «Ljusja non morire ti prego! Per favore non morire! »In realtà a chinarsi su di lei era il sottotenente Aleksej Kičenko che la prese tra le braccia e  la portò fuori dalla boscaglia verso le trincee.
In venti minuti grazie a una macchina del comando fu portata nel tunnel dove stavano gli ospedali da campo molto ben attrezzati. Venne operata , aveva perso molto sangue e furono necessarie delle trasfusioni ma anche questa volta se la cavò e sopravvisse...
Gli assalti dell’esercito tedesco si susseguivano incessanti. Il piano del comandante della XI armata della Wermacht, Erich von Manstein era quello di salutare il 1942 a Sebastopoli ma non si avverò, i vari assalti vennero respinti.
Ljudmila non si era resa conto da subito che il sottotenente Kičenko era innamorato di lei. Riuscì non si sa come a non farla evacuare e dopo essere stata dimessa dall’ospedale ritornò alle linee del 1° battaglione dove trovò il rifugio abbellito per quanto possibile.
Un tavolo di assi appena piallate coperto da una tovaglia di tela. In mezzo un bossolo di 45 millimetri a mo’ di vaso con germogli di ginepro verdi, rametti d’acero a foglie rosse e gialle che brillavano alla luce fioca di una lampada a batteria.
La tavola era apparecchiata per la cena con i piatti di stagno, pane nero e salame, un barattolo aperto di stufato, patate lesse e una fiaschetta di vodka. Lui le dichiarò il suo amore, le chiese di sposarlo e lei accettò. Certo le cose erano accadute un po’troppo in fretta ma in guerra il domani è molto incerto.
Secondo le modalità stabilite presentarono la richiesta ai superiori per formalizzare il loro legame. I compagni di reggimento accennarono a una festa di nozze ma fu più una cosa scherzosa che altro. Molto riservata e poco incline al sentimentalismo Ljudmila ha dedicato poche righe all’amore e al matrimonio.
Ha raccontato di un uomo che da ufficiale godeva di autorità indiscussa presso i subalterni, da marito fu sempre premuroso e la protesse, per quanto poteva, di fronte alle avversità della prima linea.
Ha confessato di aver conosciuto per la prima volta il significato della parola “amore”, un amore corrisposto e struggente. Nonostante avessero come casa un rifugio di terra, vivevano felici. Da lì partiva a caccia di nemici nella foresta e quando tornava a qualsiasi ora del giorno o della notte sapeva di trovare un pentolino d’acqua calda sulla stufa per una tazza di tè dolce, una maglietta pulita, una cuccetta con una coperta di flanella e il pranzo o la cena preparate.
Continuava nel frattempo ad addestrare il plotone dei cecchini e talvolta portava nella foresta per una dimostrazione sul campo quelli che dimostravano una buona attitudine.
Ormai si diceva che fosse stregata, che a vegliare su di lei fosse il signore dei boschi il Lesij , il quale con il corpo a forma di albero deviava su di sé con le mani nodose i proiettili e le granate. Si diceva anche che grazie a questa protezione poteva capire cosa succedesse a un chilometro di distanza.
Infine doveva al suo protettore la capacità di vedere bene sia di giorno che di notte, a muoversi silenziosa e a nascondersi dove nessun altro sarebbe riuscito a fare. Per tutti questi motivi all’interno del reggimento le fu dato il soprannome: la lince.

 

IL DUELLO

L’8 gennaio 1942 capitò un evento piuttosto triste. Il capo di stato maggiore della Primorskasja, generale Nikolaj Ivavanovič Krylov rimase ferito mentre l’aiutante  il primo tenente Kocharov rimase ucciso. Il generale stava ispezionando le posizioni delle unità combattenti schierate del terzo settore.
Il bellissimo paesaggio montano comprendeva anche un ponte, il Kamyslovkij  che era stato costruito sull’omonima gola in tempo zarista, quando furono posati i binari della linea ferroviaria Mosca-Sebastopoli. Durante l’assedio della città, dal momento che non serviva né ai russi né ai tedeschi, era stato fatto saltare in aria.
Erano rimaste in piedi due o tre campate per il resto i pilastri di cemento grigio erano sormontati da un mucchio di metallo contorto. Una magnifica opera di ingegneria era caduta in rovina a testimonianza della insensata spietatezza della guerra. Da un lato si vedevano le posizioni tedesche, tra i rottami sarebbe stato possibile trovare un punto adatto per il nascondiglio di un cecchino.
Quella mattina Ljudmila insieme a Fëdor Sedych che le faceva da spalla, stava tenendo una lezione al plotone perché erano arrivati i nuovi fucili SVT-40 Tokarev, un fucile piuttosto complesso che richiedeva buone capacità già solo per smontarlo e rimontarlo.
Venne convocata al comando e informata che verso il ponte era comparso un ottimo tiratore tedesco che aveva ucciso alcuni soldati e due ufficiali, tutti colpiti alla testa. Dal momento che per ora la presa di Sebastopoli era fallita ed era diventata una guerra di posizione, questa costituiva un buon momento per l’impiego dei tiratori scelti.
Infatti ne erano arrivati parecchi anche da parte tedesca, trasferiti dalle divisioni di stanza in Polonia e in Francia.
Lei accettò l’incarico, chiese di portare come osservatore il sergente Sedych  sua spalla abituale e carichi dei materiali necessari vennero portati vicino alla gola. Fu subito chiaro che sarebbe stato impossibile dalla parte russa allestire  un nascondiglio all’estremità meridionale del ponte.
Dal lato del nemico la scena era del tutto diversa perché erano sopravvissute tre campate, erano abbastanza salde e nonostante la presenza di travi piegate, binari divelti e altri rottami, senza dubbio quello poteva essere il punto scelto dal cecchino tedesco.
Per due giorni Ljudmila studiò il ponte poi mentre la notte di gennaio si stava ritirando e i contorni del ponte si profilavano nella foschia del mattino, la sagoma scura di un uomo avanzava tra le travi contorte, la preda era entrata nella zona di guerra.
Era improbabile che il tedesco scoprisse il nascondiglio preparato rispettando tutte le regole della mimetizzazione apprese alla scuola Osoaviachim di Kiev. Occorreva provocarlo per poter individuare la provenienza dello sparo. Con questo obiettivo era stata preparata un’esca: un fantoccio su un bastone con cappotto, elmetto e un fucile legato dietro la schiena. Da lontano doveva sembrare come se una sentinella sovietica avesse abbandonato la trincea per osservare l’area di fronte a sé. Il tedesco sarebbe caduto in un vecchio trucco usato durante la Prima guerra mondiale? Sì, cadde nella trappola. Sparò un colpo, un breve lampo baluginò proprio dove Ljudmila aveva previsto.
Adesso vedeva la testa dall’oculare del mirino telescopico, trattenne il respiro e premette dolcemente il grilletto. Uno sparo dal basso con una correzione secondo l’angolo di posizione del bersaglio in mezzo agli occhi. Si avvicinò al corpo ma non le piaceva guardare i volti dei nemici morti né ricordarli. Con sua grande sorpresa il cecchino tedesco non aveva un KAR98K ma un MOSIN  con mirino PE, senz’altro un trofeo. Purtroppo tante delle migliori armi russe erano finite nelle mani degli invasori durante i primi mesi di guerra.
Come sempre tagliò con il coltello finlandese le decorazioni, prese i documenti e gli oggetti tra cui un pacchetto di cotone e di bende che per una donna erano sempre necessari. Trovò anche una fiaschetta piatta di cognac che regalerà al marito e alcune porzioni di cibo da cecchino.
Arrivata al comando, il colonnello Potapov, esaminando i documenti del tedesco osservò che era stato trasferito a Sebastopoli da poco. Aveva combattuto in Polonia, Belgio e Francia ed era stato istruttore di tiratori scelti a Berlino. Aveva un bottino di 215 morti tra soldati e ufficiali
A quel punto il colonnello chiese: ”E tu Ljudmila Michajlovna, quanti ne hai? ”Lei rispose, 227”. In un modo perverso le circostanze li avevano abbinati bene. In seguito a questa impresa per volere dei superiori dovette incontrare il direttore del quotidiano della Primorskaja Zarodinu, (Per la patria) che la intervistò e venne fotografata con il fucile in varie posizioni di tiro.
Non era contenta della pubblicità che ne sarebbe derivata. Un cecchino non dovrebbe attirare l’attenzione su di sé. Il giornale sarebbe stato distribuito in diverse migliaia di copie, in quali altre mani sarebbero capitate?
Ma non era finita lì. Il 2 febbraio dovette lasciare il fronte per andare in città e prendere parte a una conferenza di attiviste per la difesa di Sebastopoli, ospitata presso la Dom Učitelja (Casa dell’insegnante) dove avrebbe dovuto parlare delle operazioni dei cecchini.
Non aveva mai parlato in pubblico, sotto i riflettori poi! Incoraggiata dal marito annotò alcuni punti di ciò che avrebbe detto. Si pose un altro problema, quello dell’uniforme da parata che non aveva mai avuto. Si ritrovò ad indossare l’abbigliamento ritenuto consono alle donne dell’esercito: una divisa color cachi con il colletto rovesciato, cintura e tasche a fessura, stivali neri.
In macchina trovò Nina Onilova, mitragliera insignita dell’Ordine della Bandiera Rossa.
La sala era affollata di donne che avevano dovuto sostituire gli uomini in tutte le attività e che stavano affrontando una vita sempre più difficile. Si insegnava ai bambini in una scuola dentro un rifugio antiaereo, bisognava stare dodici ore al giorno al tornio a punzonare bombe a mano, lavoravano in un laboratorio tessile a confezionare pacchetti di biancheria per l’esercito.
Ma come se la giornata non avesse mai fine , partivano la sera dopo il lavoro per un ospedale sottoterra e curare i soldati feriti. Per il pane c’erano le tessere annonarie e i pescatori si prodigavano in ogni modo per gli abitanti della città.
Andavano per mare nonostante il fuoco d’artiglieria e le mine pur di consegnare alle mense il pesce, soprattutto acciughe e platesse. Intanto le missioni si susseguivano. I tedeschi avevano occupato un’altura segnata sulle mappe come “Senza nome” e colpivano una strada sterrata dietro il settore difensivo  molto importante per rifornire le truppe russe del necessario.
Tutti i tentativi di conquistarla fino a quel momento erano falliti con gravi perdite di uomini. Sarebbe toccato ora alla Pavlicenko e alla sua squadra di cecchini provarci. Nell’altura “Senza nome” c’era la cima di Gasforta battezzata così in onore del colonnello Vsevolod Gustavočič Gasfort, eroe del primo assedio di Sebastopoli.
Era stato il comandante del reggimento di fanteria Kazan’ che combatté nel 1854-55 contro l’alleanza anglo-franco-italo-turca. Parte della cima era occupata dal cimitero italiano, le spoglie dei soldati furono inumate nel 1882 con il permesso del governo russo
Si trattava di oltre duemila soldati e ufficiali del Corpo di spedizione sardo, morti in combattimento e parte per l’epidemia di colera. Ora vicini a quel punto passava l’autostrada Sebastopoli-Jalta.
Questa missione era particolarmente complessa a causa della conformazione del terreno, sicuramente sarebbe durata alcuni giorni. Indugiare troppo a lungo negli addii appesantisce il cuore, soprattutto in tempo di guerra. Dentro il rifugio marito e moglie si abbracciano, un passo oltre la soglia e ridiventavano solo commilitoni.
Individuata la postazione nemica non restava che mirare e non mancare il bersaglio. Come sempre Ljudmila fu la prima a sparare, poi partirono gli altri sette colpi, infine altri otto. Tutti e quindici i nazisti rimasero uccisi, l’avamposto nemico cessò di esistere.
Fu sparato un razzo rosso per segnalare che l’altura era stata presa, in risposta un razzo verde che significava “congratulazioni, ben fatto!” Oltre alle armi e ai documenti fu trovata anche una radio, trofeo prezioso. Il giorno successivo fu sterminato un altro gruppo, circa una ventina di mitraglieri tedeschi, non sapevano che l’altura era stata occupata dai russi.
Ai primi di marzo 1942 il consiglio militare della Primoskaja consegnò alla Pavličenko il diploma di “cecchino sterminatore” il quale attestava che aveva ucciso 257 nazisti.



Ljudmila Pavličenko con il marito, Aleksej Kičenko

 

LA PRIMAVERA DEL 1942

Come premio ottenne insieme  al marito una licenza per andare in città. Visitarono la Pinacoteca e i musei, nonostante le ostilità, la città non appariva trascurata o sporca. Nel complesso tutti i servizi funzionavano: tram, bagni pubblici, parrucchieri, negozi, ospedali.
La mattina del 3 marzo il tempo era bello e faceva caldo al punto che non era possibile rimanere chiusi nel rifugio. Ljudmila e il marito decisero di fare colazione all’aria aperta seduti sul tronco di un albero caduto. All’improvviso iniziò un attacco di artiglieria nemica con cannoni a lungo raggio sulle linee del 54° reggimento.
Un proiettile cadde proprio alle spalle della coppia e decine di schegge fendettero l’aria. Kicenko protesse Ljudmila con il suo corpo ma rimase ferito. Sul momento non era sembrata una cosa grave, lei cercava di fasciargli le ferite ma il sangue sgorgava copioso.
Fu portato in ospedale per essere operato, fu necessario amputargli il braccio destro attaccato solo per un tendine ma la situazione peggiore riguardava la schiena dove erano conficcate sette schegge. Il chirurgo aveva potuto tirarne fuori solo tre la situazione era quindi molto grave. Alla notizia Ljidmila svenne e non ricordò cosa successe dopo. Si risvegliò su un letto dell’ospedale ed ebbe il permesso di rimanere a vegliare suo marito che morì a mezzogiorno del 4 marzo tra le sue braccia.
I funerali si svolsero il giorno successivo al cimitero della Fraternità alla presenza di tutti gli ufficiali non in servizio del 54° reggimento, dei soldati della Seconda compagnia, del Commissario militare e del Comandante. Nel momento in cui la bara fu calata nella fossa fu accompagnata dalle raffiche di saluto dei mitra.
Dopo la morte del marito ebbe dei problemi, provò a prendere in mano un fucile da cecchino ma non riusciva a reggerlo per il tremore delle mani e dovette farsi aiutare da un neuropatologo.
Se fino a quel momento aveva combattuto per difendere la sua terra, ora aveva un motivo in più, vendicare la morte marito.
Per tutto il mese di marzo, aprile e maggio 1942 le forze russe e quelle tedesche rimasero sostanzialmente sulle loro linee e non si verificarono grossi cambiamenti. La gente di Sebastopoli non si perdeva d’animo e guardava al futuro con speranza. Per le celebrazioni del Primo maggio , su richiesta del Comitato di difesa furono organizzate una serie di Subbotnik,” sabati di lavoro”.
Furono ripuliti i campi, bruciata la spazzatura, riempite le buche e i crateri delle bombe. Inoltre le finestre sfondate furono coperte con assi e fogli di compensato, le panchine nei giardini vennero pitturate.
Alle prime ore dell’8 maggio, i nazisti lanciarono un’offensiva sulla penisola di Kerc . Erano in inferiorità numerica ma concentrando le forze su una stretta sezione del fronte alla fine riuscirono ad avere successo e conquistarono tutta la penisola.
Iniziava una nuova offensiva generale l’”Operazione blu” che puntava a Sud-Est verso il Caucaso, ricco di giacimenti petroliferi che fornivano la maggior parte del carburante sovietico. L’avanzata tedesca fu ancora una volta veloce e vittoriosa ma continuò a distendere ulteriormente le linee di comunicazione.
Anche l’Italia venne coinvolta nella campagna di Russia con un corpo di spedizione formato da truppe alpine riunite nell’Armir, composto da circa 230000 uomini, male armati ed equipaggiati e pochissimo motivati che non si rivelarono di grande utilità agli alleati tedeschi.
Il terzo assalto alla città cominciò il 7 giugno, sembrava che un vulcano avesse eruttato nei dintorni di Sebastopoli tale fu la potenza di fuoco impegnata dal nemico. La fanteria tedesca coadiuvata dai carri armati e cannoni mobili avanzava, i soldati nudi fino alla cintola procedevano a lunghe falcate con la schiena dritta.
Si erano fatti audaci “i bastardi”, i veri tedeschi imperiali, le truppe d’élite di Hitler, ben addestrati e ben nutriti, dai corpi robusti e candidi, non toccati dal fardello di un lungo assedio. Erano stati trasferiti dal Dombass, dalle fila della XVII armata.
Osservandoli con il binocolo Ljudmila si accorse che erano ubriachi perché avanzavano incespicando sulle pietre, chiacchierando, spintonandosi l’un l’altro e rigirando i fucili avanti e indietro.
Dopo aver controllato personalmente i fucili SVT-40 del gruppo dei cecchini, espose il piano. Bisognava mettere rapidamente fuori combattimento gli ufficiali e i sottoufficiali tra i ranghi e poi passare ai nidi delle mitragliatrici e alle squadre dei mortaisti. Questa  volta   propose al gruppo una tattica diversa, sparare alla seconda fila invece che alla prima e di mirare allo stomaco. Dopo aver sparato alcuni colpi si vide l’effetto. I nazisti si contorcevano dal dolore implorando aiuto e questo causò confusione anche nella terza fila. La sera abbandonarono il campo di battaglia di quel settore, contarono quelli che erano rimasti lì con le fibbie di alluminio perforate. Erano più di venti.
La situazione però stava precipitando, i difensori di Sebastopoli stavano mostrando un eroismo miracoloso ma soffrivano di una cronica carenza di armi e munizioni. Le consegne via mare si erano fatte complicate, munizioni, armi, vettovaglie e rinforzi dovevano essere trasportate solo via mare dai sottomarini la cui capacità di carico per ovvie ragioni era limitata.
Frattanto Ljudmila era stata ferita di nuovo. Questa volta sul viso da una scheggia che le aveva strappato il lobo dell’orecchio destro. L’onda d’urto le aveva provocato danni al timpano e una commozione cerebrale. Uscita dall’ospedale le fu permesso di viaggiare e fu imbarcata con gli altri feriti sui sottomarini arrivati da Novorossijsk. In ospedale lesse sulla prima pagina della Pravda che per ordine del comando supremo dell’Armata Rossa datato 3 luglio 1942 le forze sovietiche avevano abbandonato la città di Sebastopoli.
La difesa della città era durata 250 giorni. Questo ordine la lasciò molto perplessa e si pose alcune domande. Oltre a tre brigate e due reggimenti di fanteria di marina, anche sette divisioni di fucilieri avevano preso parte alla difesa. Se migliaia di soldati e ufficiali avevano lasciato Sebastopoli, dove erano andati?
La verità fu nascosta per molto tempo, circa 80.000 difensori rimasti nel campo di battaglia vicino al faro di Cherson erano stati fatti prigionieri dai nazisti.
Quando, una volta guarita completamente, si presentò nell’ufficio del comandante  di Novorossijsk , con sua grande sorpresa incontrò il generale Petrov che aveva conosciuto nell’autunno del 1941 a Odessa.
Era completamente privo di quell’arroganza e supponenza che caratterizzava alcuni comandanti dell’Armata Rossa. Era molto democratico e si preoccupava per i soldati non solo a parole ma con i fatti. Secondo un corrispondente di Krasnaja Zvezda , il generale, uomo colto e amante dell’arte, aveva quel genere di coraggio sgraziato e poco sollecito apprezzato da Lev Tolstoj.
Il generale la salutò cordialmente e le chiese se avesse un sogno da realizzare, lei rispose che voleva diventare un ufficiale, riteneva di averlo meritato e aspettava di sapere quale sarebbe stato il suo prossimo incarico. Fu mandata a Mosca.
Nel frattempo l’offensiva tedesca aveva come obiettivo Stalingrado, svincolo fondamentale per le comunicazioni fra la Russia centrale e il Caucaso. Come era successo a Mosca e a Leningrado, i sovietici decisero di difendere la città a qualunque prezzo anche per il nome che portava.
La battaglia di Stalingrado, durata dal luglio 1942 al febbraio 1943, fu probabilmente decisiva per le sorti della guerra in Europa. L’esercito sovietico e la popolazione resistettero strada per strada agli assalti della potente Sesta armata tedesca comandata dal maresciallo Friedrich von Paulus poi la chiusero in una morsa e la annientarono.
In Germania alla notizia della sconfitta di Stalingrado furono proclamati quattro giorni di lutto nazionale.
Mosca apparve a Ljudmila enorme, maestosa, austera ed era ancora in una situazione di prima linea. Nei giardini pubblici e agli incroci erano posizionati cannoni antiaerei e lungo le strade palloni da sbarramento. Fu nominata comandante di un plotone di cecchini della XXXII divisione aviotrasportata della Guardia. Ma dal momento che gli aerei erano pochi, l’unità non si poté formare e venne assegnata al distretto militare di Mosca. Il suo compito come istruttrice di cecchini, sarà quello di addestrare un gruppo di trenta soldati in un mese di tempo.
Le venne presentato lo scrittore Boris Laurenev, autore del romanzo Sorok Pervyj ( Il quarantunesimo) da cui era stato tratto il film girato da Jakov Protazanov nel 1927. Aveva letto il romanzo e visto il film e non era d’accordo su come era stata presentata la vicenda e sul ruolo della protagonista.
Riteneva che il conflitto tra la timida operaia soldatessa dell’Armata Rossa e il suo prigioniero, il fine intellettuale, tenente dell’esercito zarista fosse artificioso. La questione poi di cosa fare con un nemico che cerca di scappare non avrebbe tenuto occupato un vero fuciliere per più di mezzo minuto per premere il grilletto.
Lo scrittore aveva avuto l’incarico di scrivere un pezzo sulla Pavličenko e l’opuscolo sarebbe uscito nel novembre del 1942, così tutti avrebbero conosciuto le sue gesta. Lei non era d’accordo, non era vanitosa e poi era convinta che l’identità di un cecchino dovesse rimanere nascosta, ma dovette piegarsi alle esigenze della propaganda.
L’opuscolo, definito da Ljudmila una fantasmagoria fu stampato in 50.000 copie e distribuito rapidamente in tutto il Paese. Tuttavia la direzione politica dell’Armata Rossa non si affidava soltanto a eminenti scrittori e alle loro esotiche fantasie, le mandò anche due agenti della propaganda, l’intento era quello di stampare 100.000 volantini con il suo ritratto e un appello rivolto ai soldati: «Sparate al nemico e non mancatelo!» L’appello riecheggiava l’esortazione lanciata dal poeta e scrittore Il’ja Grigor’evič  Erenburg, pubblicato su Stella Rossa «Uccidi il nemico. Questo ti chiede la tua vecchia madre. Uccidi il nemico, questo ti chiedono i bambini. Uccidi il nemico, questo ti chiede la patria. Non sottrarti, non tirarti indietro. Uccidi!»

 

MISSIONE A WASHINGTON

In modo imprevisto e inimmaginabile, la vita di Ljudmila ebbe una svolta. Il 3 agosto l’ambasciatore degli Stati Uniti in Unione Sovietica spedì a Stalin un telegramma del presidente Franklin Delano Roosevalt in cui comunicava che dal 2 al 5 settembre 1942, Washington avrebbe  ospitato un’assemblea internazionale studentesca.
Il presidente americano esprimeva il desiderio che una delegazione di due o tre studenti sovietici potesse partecipare all’evento, in particolar modo coloro che avevano preso parte ai combattimenti contro i tedeschi.
La preparazione della trasferta richiese che la direzione politica dell’Armata Rossa esaminasse velocemente centinaia di moduli di studenti combattenti ma non essendo possibile richiamarli dai vari fronti di guerra, fu deciso di restringere la ricerca al distretto militare di Mosca.
Alla fine furono scelti tre giovani: Nicolaj Krasavčenko, come capo delegazione, che aveva combattuto nel movimento partigiano a Smolensk, Vladimir Pčelincev primo tenente, eroe dell’Unione Sovietica, da cecchino aveva ucciso 154 nazisti, Ljudmila Pavličenko  sottotenente, decorata con l’Ordine di Lenin, comandante del plotone cecchini della XXXII divisione aviotrasportata della Guardia con un bottino di 309 nazisti uccisi.


Washington, 1942: Ljudmila Pavlichenko con il tenente senior V.N. Pchelintsev
e
il segretario del comitato statale di Mosca del Komsomol N.P. Krasavchenko

Naturalmente ad avere l’ultima parola sarebbe stato Stalin. Ignara di tutto, a sorpresa una sera fu chiamata al telefono e avvisata che era attesa al Cremlino. Si trovò insieme agli altri due giovani e apprese che sarebbe partita per gli Stati Uniti il 14 agosto all’alba.
Vennero sottoposti a un vero esame sulla storia del Partito e del Komsomol sul servizio nell’esercito e la partecipazione alle battaglie. Furono ricevuti da Dimitrov, segretario generale del Comitato esecutivo del Comintern e poi accompagnati in un seminterrato uguale a un grande magazzino ma senza clienti dove scelsero i capi d’abbigliamento da portare in viaggio.
Si pose subito un problema per Ljudmila, non c’era per lei una uniforme da parata adeguata al grado quindi fu modificata una giubba normale da donna, non andò meglio con gli stivali, non c’era il numero giusto e si dovette accontentare.
Questo stava a dimostrare una totale mancanza di sensibilità. Nonostante la forte presenza femminile nella guerra non era stato fatto nessuno sforzo per consentire alle donne di indossare uniformi e calzature giuste.
Ai tre giovani vennero illustrate le caratteristiche, le politiche delle potenze alleate, i loro leaders, il pericolo di possibili provocazioni , consigli sul comportamento da tenere e infine delle note per i discorsi da annotarsi.
Rimaneva il problema della lingua, solo la Pavličenko conosceva un po’ di inglese grazie alla madre insegnante di lingue. Furono consegnati i passaporti, belli , robusti, di forma oblunga, rilegati con una copertina di seta rossa e lo stemma dell’URSS in rilievo. Dentro la scritta era in russo e francese con la fotografia. A ciascun membro della delegazione furono consegnati 2.000 dollari, una bella somma al tempo. Stava accadendo tutto molto in fretta per apprezzare la complessità e la singolarità di quella missione.
Gli americani non sapevano molto della guerra in corso e loro avevano il compito di informarli affinché si rendessero conto che si trattava di una battaglia tra la vita e la morte per il futuro dell’umanità e per questo convincerli della necessità dell’apertura del secondo fronte.
Lei avrebbe voluto rassicurare i funzionari che avrebbe fatto del suo meglio per non deludere il proprio paese e la fiducia in lei riposta. Tuttavia non le vennero le parole, in balia di sentimenti contrastanti , pensierosa guardava fuori dalla finestra il cielo moscovita, alto, limpido, una miriade di stelle.
A sud, sul Mar Nero dove ha lasciato una parte del cuore, il firmamento era più scuro e le stelle più luminose. Quante volte le sue missioni solitarie erano iniziate sotto quelle stelle che le avevano rischiarato il cammino su un sentiero tortuoso nella foresta incantata della Crimea!
Fu organizzata una modesta cena di commiato nell’ufficio di Michajlov, primo segretario, quando squillò il telefono sulla scrivania, era il Cremlino che li convocava. Il segretario del comandante in capo supremo Pokrebyšev aprì la porta e furono introdotti davanti al grande uomo in persona.
Ljudmila notò che non era alto quanto aveva pensato, magro, abbastanza scuro con piccole butterature sul viso. Indossava una giubba semplice, con il colletto rovesciato, senza insegne. Ad attirare l’attenzione però erano gli occhi scuri, simili a quelli di una tigre, si capiva che aveva una immensa forza interiore. Il tempo si era come fermato. Michajlov li presentò e Stalin si limitò a sottolineare l’importanza per il Partito e per il governo dell’apertura di un secondo fronte da parte degli alleati. Si soffermò sul fatto che il popolo americano dovesse conoscere la verità sulla lotta contro il nazismo.
Poi domandò se avevano richieste da fare. I due ragazzi erano come paralizzati, solo Ljudmila rispose che avevano bisogno di un dizionario russo-inglese e di una grammatica e Stalin rispose che glieli avrebbe dati personalmente.

 

L’ARRIVO IN AMERICA

L’espresso arrivò a Washington da Miami in perfetto orario alle 5,45 del mattino del 27 agosto 1942. Era ancora buio ma una folla nutrita era radunata sul binario. Il 25 agosto la Tass, l’Agenzia telegrafica dell’Unione Sovietica, aveva diffuso negli Stati Uniti la notizia dell’arrivo di una delegazione di studenti russi combattenti e membri del Komsomol che alcuni giornali avevano rilanciato.
Una limousine portò la delegazione alla Casa Bianca accolta all’ingresso dalla signora Eleanor Roosevelt, moglie del Presidente. A colazione conobbero Gertrude Pratt segretaria del Comitato americano dell’International Student Service (ISS), colei che aveva organizzato l’assemblea internazionale.


Ljudmila Pavlichenko
con Eleanor Roosvelt


Durante la colazione, ad un certo punto la Signora Roosevelt disse a Ljudmila che se una donna americana avesse avuto il viso del nemico attraverso la lente del mirino non le sarebbe stato facile ucciderlo. Non era chiaro il perché e il senso della frase, forse voleva sottoporla a un esame.
Lei era al corrente che i giornali britannici e americani sostenevano che non erano soldati ma semplici inviati della propaganda comunista. Rispose che gli americani non conoscevano cosa significasse avere il nemico che distruggeva le loro case, i villaggi, la natura, che uccideva i padri, i figli, che suo marito aveva perso la vita a Sebastopoli fra le sue braccia.
Un proiettile ben assestato non era altro che la giusta risposta a un nemico crudele e che ogni volta che ne vedeva uno attraverso l’oculare del mirino telescopico era colui che l’aveva ucciso. Nonostante gli errori di pronuncia e nell’uso dei tempi verbali tutti capirono benissimo il significato delle sue parole.
Il tempo della delegazione era sottoposto a una scansione dei tempi molto rigorosa. Cominciò la girandola delle conferenze stampa e delle cene ufficiali. Sulle prime il comportamento dei giornalisti disorientò i membri della delegazione russa, si resero conto che non erano tanto interessati ai discorsi pressoché ufficiali ma cercavano di sapere notizie personali.
Dal momento poi che la Pavličenko era l’unica donna c’era molta curiosità nei suoi confronti e gran parte delle domande era per lei. Domande assurde che dimostravano come non ci si rendesse conto della tragedia che stava vivendo l’Europa e l’Unione Sovietica.
Ad esempio le chiesero se al fronte poteva fare un bagno caldo, se metteva il rossetto prima di andare in battaglia, di che colore fosse la biancheria intima che indossava, se si rendeva conto che l’uniforme la faceva sembrare grassa e altre amenità del genere.
La signora Roosevelt non era nota per la sua bellezza ma aveva grande fascino. All’inizio del viaggio Ljudmila aveva nutrito dei pregiudizi nei suoi confronti: aristocratica, milionaria, membro della classe sfruttatrice, non avrebbe  potuto immaginare che potesse provare interesse nei suoi confronti.
I quotidiani consegnati alla Casa Bianca entro l’ora di colazione del 28 agosto, riportavano i resoconti della conferenza stampa con le foto relative. Alcuni discutevano se le rappresentanti del “gentil sesso” potessero sul serio servire nell’esercito.
Altri definivano la Pavličenko un assassino a sangue freddo, priva di pietà per gli sventurati soldati tedeschi che eseguivano soltanto gli ordini dei comandanti. Sul New York Post una rubrica firmata da Elsa Maxwell invece l’aveva descritta come una giovane bella, calma e sicura di sé, conseguenza di quello che aveva dovuto vivere e sopportare, con le mani da bambina e il viso di una Madonna del Correggio.
La sera, la delegazione andò a uno spettacolo al National Theater in Penssylvania Avenue, poco distante dalla Casa Bianca. Davano Madame Butterfly di Giacomo Puccini. Sulle prime nessuno se ne accorse dato che erano in abiti civili, Ljudmila dopo un tempo infinito aveva dovuto indossare scarpe con il tacco ed era in difficoltà.
Nell’intervallo tra il secondo e il terzo atto, quando si accesero le luci, il direttore salì sul palco e annunciò che una delegazione studentesca sovietica era presente in sala. Dovettero salire sul palco anche loro, Vladimir Pčelincev come capo delegazione parlò qualche minuto.
A quel punto alcune ragazze con in mano scatole colorate iniziarono a raccogliere denaro per aiutare l’Armata Rossa. Scene simili si ripeterono più volte durante il viaggio e nel complesso furono raccolti 800.000 dollari trasferiti all’Ambasciata sovietica.
La mattina del 2 settembre si tenne la prima seduta dell’Assemblea internazionale. Gli studenti provenivano da cinquantatré  paesi ma la maggior parte dagli Stati Uniti , Gran Bretagna, Canada. Il tema affrontato fu «L’Università in tempo di guerra». Il capo delegazione russo diede un resoconto completo e dettagliato degli studenti sovietici nelle operazioni belliche e del loro lavoro nelle retrovie.
La sera stessa alla Casa Bianca incontrarono il Presidente F. Delano Roosevelt, furono presentati dalla First Lady. Senza dubbio era un uomo eccezionale, dalla menta acuta e con una grande forza di volontà. Quando l’interprete ripeté i nomi delle città da cui provenivano, il Presidente commentò:« Mosca, Leningrado, Odessa e Sebastopoli. Meraviglioso! Un condensato della guerra dei tedeschi in Russia». Volle sapere poi come avevano fatto i russi a resistere così tanto, forse il fattore principale era l’unità tra l’esercito e la gente che imbracciava le armi contro l’invasore?
Prima che Ljudmila riuscisse a porre la questione per cui erano in America, cioè l’apertura di un secondo fronte in Europa Occidentale che avrebbe alleggerito la pressione tedesca sull’Unione Sovietica, il Presidente parve leggerle nel pensiero. Disse che per il momento era difficile dare un’assistenza più concreta, gli americani non erano ancora pronti per un intervento decisivo e gli alleati britannici bloccavano questa eventualità.
Il 5 settembre si chiuse il Congresso studentesco internazionale e il governo aveva organizzato un ricevimento sul prato vicino alla Casa Bianca. Non c’è dubbio che l’arrivo dei russi aveva cambiato in una certa misura il senso del Congresso perché la guerra prima distante e incomprensibile aveva assunto concretezza grazie a loro.
Il giorno dopo l’ambasciatore Litvinov li informò che gli alleati americani si erano offerti di prolungare il soggiorno della delegazione e di mandarli nelle città statunitensi per dare maggiore risalto alle attività della coalizione anti-hitleriana e che l’Ambasciata sovietica aveva accettato.
La Pavličenko e Pčelincev non sono contenti, vorrebbero tornare a casa dove si sta combattendo a Stalingrado e dal tipo di scontro, casa per casa, strada per strada, molto utile sarebbe stato il ruolo dei cecchini. I giornali americani e inglesi scrivevano delle gesta del cecchino Vasilij Zaicev che aveva ucciso 225 nazisti in tre mesi. Inoltre Ljudmila e Vladimir in competizione tra loro non avevano intenzione di riposare sugli allori la prima con 309 nemici uccisi, il secondo con 154 avrebbero voluto aumentare il loro bottino.
L’Ambasciatore ascoltò le ragioni addotte  ma doveva eseguire gli ordini e quindi il 6 settembre, Festa nazionale, il Labor Day andarono a New York con indosso l’uniforme da parata. In Central Park li aspettava il sindaco Fiorello La Guardia e una gran folla.
Il sindaco annunciò al microfono l’arrivo dei rappresentanti dell’eroica Armata Rossa ed espresse ammirazione per la lotta titanica del popolo russo contro i nazisti. Seguì un’esibizione di Paul Robenson che cantò in russo un brano di Dunaevskij, “Široka strana moja rodnaja” ( Grande è la mia madrepatria).
Tornati a  Washington furono informati che il Presidente e la moglie avevano invitato gli studenti sovietici insieme ad altri partecipanti a trascorrere una settimana nelle tenuta di famiglia Hyde Park sull’Hudson.
Poco distante dal centro della tenuta si trovava un grande lago e su una sponda c’erano barche ormeggiate che ondeggiavano nella brezza leggera. L’attenzione di Ljudmila fu catturata da una strana imbarcazione bislunga, in apparenza coperta di pelle con un piccolo sedile al centro e remi corti negli scalmi.
Lei e la sorella Valentina a Belja Cerkov si divertivano a navigare sul Ros con una barca a fondo piatto, la cosiddetta “quercia cosacca”. Senza pensarci troppo, saltò sulla canoa, chiamata indiana ma lo seppe dopo, remando si allontanò dal molo. Una breve svolta, la canoa si capovolse, si ritrovò nell’acqua gelida tutta vestita e dovette nuotare fino alla riva. Se ne accorse la First Lady che la fece entrare in casa. In bagno la fece spogliare, poi consegnati gli abiti bagnati e sporchi ad una cameriera, andò a prendere un suo pigiama e la scatola di lavoro. L’asciugamano che avvolgeva il corpo di Ljudmila lasciava scoperte le spalle e la parte superiore della schiena. La signora Roosevelt rimase sconvolta nel vedere una lunga cicatrice biforcuta che correva in diagonale dalla scapola destra alla spina dorsale e pretese che le raccontasse quando e come era successo. Poi con abilità adattò il pigiama all’ospite. Il Presidente perplesso per l’assenza delle due donne, le andò a cercare e le trovò sedute sul letto assorte nel lavoro di cucito che chiacchieravano tranquillamente.
Quando la delegazione tornò a Washington, l’ambasciatore comunicò loro che a Mosca avevano deciso che Krasavčenko e Pčelincev  avrebbero visitato delle città nel Nordest degli Stati Uniti  per incontrare studenti di college e università mentre la Pavličenko sarebbe andata nel West e nel Midwest e spesso sarebbe stata accompagnata dalla signora Roosevelt.
Tra le visite più significative vi fu quella alla sede della Ford Motor Company a Detroit. Henry Ford, allegro e minuto, in là con gli anni, le regalò un distintivo d’oro. Dopo un pasto modesto vi fu l’incontro con gli operai circa trecento in una specie di magazzino.
Non fu un incontro positivo, le fu chiesto di fare un breve intervento evitando slogan o incitazioni comuniste. Gli operai avevano un’aria cupa senza sorriso, ascoltarono in silenzio e andarono via. In macchina la signora Roosevelt le spiegò che Ford pagava gli operai bene ma in cambio pretendeva che andassero in chiesa, non si ubriacassero, non si iscrivessero al sindacato e non scioperassero.
La tappa successiva fu Chicago e l’incontro sarebbe avvenuto a Gran Park sulle sponde del lago Michigan. Tra gli ospiti d’onore avrebbe conosciuto Fred Myers, direttore dell’organizzazione di beneficenza Russian War Relief, fondata nel luglio 1941 da comunisti americani e simpatizzanti liberali.
Vi facevano parte l’attore Charlie Chaplin, il regista Orson Welles e il pittore Rockwell Kent. Come di consueto fu il sindaco della città ad aprire l’evento che dopo aver parlato brevemente della coalizione antinazista e del ruolo degli Stati Uniti al suo interno, cedette la parola a Ljudmila.
Dopo alcune frasi, lei alzò bruscamente la voce:«Signori! Io ho venticinque anni. Al fronte ho già ucciso 309 tra soldati e ufficiali fascisti. Non pensate di esservi nascosti  alle mie spalle troppo tempo?». L’interprete stupito tradusse cercando di mantenere anche l’intonazione.
Il discorso fece sensazione, addirittura grazie alla Reuters fu diffuso in tutto il mondo. Scrissero che aveva espresso in modo nitido la posizione degli angloamericani riguardo alla sanguinosa guerra della Russia contro gli invasori tedeschi.
Alla fine del ricevimento organizzato dal Sindaco, le capitò un fatto incredibile, fu avvicinata da William Patrick Johnson che era un milionario, la stava seguendo per tutto il viaggio, era innamorato di lei e voleva sposarla.
Alcuni giornalisti americani continuavano a tentare di avvalorare l’ipotesi che i subdoli bolscevichi non avessero mandato dei cecchini, ma dei propagandisti e agitatori ammaestrati e mai stati al fronte.
Per questo fu giocoforza visitare i circoli degli ufficiali in cui erano presenti armi da fuoco nonché poligoni per fare un po’ di tiro al bersaglio. D’altro canto anche lei era interessata a conoscere le armi dei cecchini americani.
Per primo prese un fucile MI Garand semiautomatico e poi uno Springfield MI903 manuale, avevano entrambi mirini telescopici Weaver. Il Garand ricordava molto l’SVT-40, lo Springfield a otturatore scorrevole era uguale al Mosin “ tre linee”.
Come sempre lei faceva scorrere le dita lungo la culatta, la canna e la volata ed esaminava il meccanismo d’innesco e il caricatore. Grazie ad un interprete spiegò le somiglianze e le differenze rispetto ai modelli sovietici.
Dall’armeria si spostarono al poligono di tiro. Era un mese e mezzo che non teneva in mano un fucile di precisione mentre un vero professionista dovrebbe esercitarsi almeno due volte alla settimana. In verità non nutriva troppa fiducia nei confronti delle armi americane, invece erano di buona qualità e tutti i proiettili sparati andarono a bersaglio.
I giornalisti che pensavano di assistere a un flop di Ljudmila dovettero ricredersi e se ne andarono con la coda tra le gambe. La visita prese un andamento colloquiale con i veterani della Prima Guerra mondiale , si scambiarono considerazioni su armi, metodi di mimetizzazione, duelli con il nemico. La sera ormai preferiva cenare nella stanza d’albergo per evitare l’assalto dei giornalisti e la richiesta d’autografi. Cominciava a sentirsi lo zimbello del villaggio, un oggetto di pura curiosità, non c’era rispetto per il suo ruolo di ufficiale combattente dell’Armata Rossa.
Al momento del congedo, il Presidente dell’associazione le regalò una Colt M1911A1 in una scatola di mogano con vari accessori e due caricatori all’interno. La tappa successiva del viaggio fu Los Angeles, dove trovò interessante solo il sobborgo di Beverly Hills.
L’incontro più significativo fu con Charles Chaplin che la ricevette nella sua casa. Nel soggiorno erano riuniti amici e colleghi tra cui riconobbe Douglas Fairbanks protagonista del suo film preferito Il segno di Zorro. Prima di cena Chaplin mostrò a tutti il suo nuovo film Il grande dittatore in cui faceva una divertente parodia di Hitler e Mussolini.
Chiese poi a Ljudmila la sua opinione sul film. Lei rispose che le era piaciuto ma in quel momento il fascismo era più temibile che spiritoso. D’altra parte l’America non conosceva ancora i crimini atroci commessi dai nazisti.
Come già accennato Chaplin svolse un ruolo importante nel Russian War Relief, Contribuì a raccogliere somme significative per la popolazione russa e a rifornire l’Armata Rossa di attrezzature e armamenti.
Era al corrente degli eventi sul fronte sovietico-tedesco ma chiese un resoconto dettagliato delle battaglie di Odessa e Sebastopoli e del suo servizio come cecchino. L’incontro si concluse in modo davvero inaspettato, Chaplin si mise in ginocchio intenzionato a baciarle ogni dito delle mani per i 309 nazisti abbattuti.
Naturalmente i giornalisti rimasero molto soddisfatti, scattarono diverse fotografie con la didascalia: ”Charlie Chaplin in ginocchio di fronte a un ufficiale russa intento a baciarle la mano”. Per questi motivi, nel clima della” caccia alle streghe ”verrà perseguitato e costretto a lasciare gli Stati Uniti.
Il 19 ottobre 1942 i membri della delegazione si riunirono di nuovo a Washington. L’ambasciatore ascoltò i rapporti del viaggio e si complimentò per i risultati. L’opinione pubblica americana si era resa conto che quelle della “stampa libera” sul popolo sovietico e sulla vita in URSS erano solo invenzioni.
Questo grazie all’incontro con quei giovani coraggiosi, soprattutto con la ragazza attraente vestita con una semplice giubba, poi riferì loro che l’ultima direttiva inviata dal Cremlino riferiva di continuare il viaggio, visitare il Canada e poi volare in Gran Bretagna.
Concluso l’incontro, l’ambasciatore pregò Ljudmila di restare e le mostrò una lettera nella quale William Patrick Johnson proprietario della società metallurgica Jonson& Sons, con un conto alla Bank of America di mezzo milione di dollari, vedovo, chiedeva al governo dell’Unione Sovietica il permesso di sposare la cittadina Ljudmila Pavličenko e di registrare il matrimonio in conformità alle leggi vigenti. Lei rimase sgomenta, che fare? La lettera era stata protocollata in cancelleria, dovette ingegnarsi a elaborare una risposta.
Finalmente dopo molti rinvii fu decisa la data della partenza il 1 novembre 1942 e la delegazione fu invitata per un’ultima cena alla Casa Bianca. La First Lady diede a Ljudmila una scatola con una splendida parure di gioielli, regalo di alcuni gentiluomini americani, che lei però non indossò mai e rimasero come ricordo del viaggio.
I rapporti con Eleanor Roosevelt non si interruppero, si rividero in Inghilterra nel novembre 1942 poi continuarono a scriversi e visitò L’Unione Sovietica nel 1957 e nel 1958.

 

SULLA VIA DI CASA

Dopo una breva sosta a Montreal, la delegazione arrivò alla base aerea vicino Glasgow in Scozia. Era previsto che prendessero parte al Congresso internazionale della gioventù che si sarebbe tenuto a Londra dal 24 al 25 dicembre.
Dopo l’esperienza americana sapevano come comportarsi, cosa proporre e come argomentare. Il compito era sempre lo stesso, fare campagna a favore dell’apertura di un secondo fronte in Europa e far conoscere l’eroica lotta del popolo sovietico contro l’invasore nazista.
Arrivarono a Londra in un mattino pieno di nebbia che faceva sembrare fantasmi le sagome dei passanti. A Ljidmila tornò in mente la definizione “la brumosa Albione” che il grande poeta Aleksandr Puškin aveva dato di quella isola oceanica.
Dopo la sosta in albergo furono portati a Ministero dell’Informazione, sul piazzale c’era il picchetto d’onore, la banda suonò l’inno dell’Unione Sovietica e la bandiera venne issata sul pennone. Ai giovani si allargò il cuore finalmente venivano rispettati e omaggiati per quello che rappresentavano. Nella spensierata e “civile” America a nessuno era venuto in mente di farlo.
Dopo i discorsi la Pavličenko e Pčelnicev ebbero l’occasione di parlare con i soldati, lei prese il fucile LEE-ENFIELD n.4 MARK1 per la gioia dei fotografi. La conferenza stampa fu diversa da quelle americane. Non ci furono domande idiote, si capiva che i giornalisti presenti avevano conoscenza della guerra ed erano informati delle operazioni militari a Leningrado, Odessa e Sebastopoli.
Chiesero della battaglia in corso a Stalingrado, dell’industria bellica e dei nuovi modelli di armi. Fecero domande anche sulle atrocità commesse dagli invasori tedeschi e chiesero chiarimenti. Nicolaj Krasavčenko rispose che era tutto vero ed era sicuro che prima o poi i criminali di guerra avrebbero dovuto rispondere delle loro azioni di fronte a un tribunale internazionale.
L’8 novembre lasciarono Londra per la contea del Kent insieme a due operatori attrezzati con il necessario con il compito di filmare gli incontri e di realizzare un lungometraggio sulla tournée della delegazione sovietica in Gran Bretagna.
Furono condotti alle fortificazioni del settore difensivo meridionale per far visita a una brigata corazzata che avrebbe preso parte allo sbarco nel Continente europeo con l’apertura di un secondo fronte.
Durante la difesa di Odessa, Ljudmila non aveva mai visto carri armati sovietici ma quelli cechi LTVZ.35, al riparo dei quali i rumeni attaccavano le postazioni dei reggimenti russi e che prendevano fuoco abbastanza facilmente se colpiti dalle molotov.
A Sebastopoli invece erano presenti carri leggeri T-26 e BT-7 che aiutavano la fanteria a respingere gli attacchi nazisti. Il carro armato prodotto dall’industria bellica britannica  il Mk IV sembrava Golia! Era lungo circa 7,5 metri, largo più di 3 e pesava 40 tonnellate, la corazza frontale era spessa 101-192 millimetri, gran  parte  delle  armi  tedesche  non  sarebbero  riuscite a perforarlo. L’equipaggio di cinque persone era di alto livello tecnico e ne diede prova con una esercitazione.
Poi furono condotti dove  era acquartierato il 70° reggimento di fanteria che era l’arma a cui appartenevano sia la Pavličenko che Pčelincev. Fu un’accoglienza semplice e rilassata nei modi e furono portati al poligono per mostrare il livello di addestramento dei cecchini dell’Armata Rossa.
Alle spalle di Ljidmila l’intera compagnia seguiva con particolare interesse guardando, una donna con un’arma da fuoco in mano. Il poligono del reggimento era abbastanza ordinario: un solido muro di mattoni  con assi di legno su cui erano posti i bersagli. La distanza da lì alla linea di tiro era di 50 metri.
Le diedero un mitra britannico STEN MKI, molto simile all’ERMA MP 38 chiamato Schmeisser che lei conosceva perché spesso era tra i trofei presi al nemico. Ora doveva agire in modo impeccabile e spettacolare, infatti fu un eccellente sessione di tiro e vennero premiati con distintivi, certificati speciali come ufficiali onorari della loro unità.
Visitarono Canterbury e l’aspetto della città suscitò tristi ricordi. Le strade erano diventate sentieri angusti tra le macerie, la stessa cattedrale costruita tra il XII e il XV secolo era stata seriamente danneggiata dai bombardamenti tedeschi intenzionati a spaventare gli inglesi cancellando anche i simboli della loro storia.
Per fortuna parte delle magnifiche vetrate si erano salvate. Purtroppo accadrà altrettanto con i bombardamenti americani attuati su grande scala. Le belle città dell’Europa, culle di civiltà e custodi di immensi tesori d’arte e di cultura sarebbero state ridotte spesso a cumuli di macerie.
Furono accolti dal decano noto anche come “il vescovo rosso” che al momento era Presidente del Comitato congiunto per gli aiuti ai sovietici e dopo aver visitato Dover base della Royal Navy, tornarono a Londra sperando di sapere la data del ritorno a casa.
Grande fu la delusione quando l’ambasciatore comunicò loro che l’inverno inglese era abbastanza freddo e quindi avevano bisogno di un guardaroba adeguato. Molto interessante fu la visita all’Università di Cambridge fondata da Enrico VIII nel 1546. Molti studenti facevano il turno di notte nelle fabbriche militari, anche loro contribuivano alla comune lotta contro il nazismo. Una mattina riuscirono a fare una passeggiata nel centro di Londra e fu incoraggiante vedere che alla fine del 1942 erano stati compiuti sforzi notevoli per restituire alla città ferita un aspetto dignitoso.
L’ambasciatore consigliò loro di raccogliere le idee per prepararsi a un incontro importante, quello con sir Winston Churchill e la moglie Clementine. L’annuncio causò stupore, ricordavano quello che avevano scritto i giornali sovietici su di lui prima della guerra.
Era considerato un nemico accanito del socialismo e del giovane stato degli operai e contadini. Ora le cose erano cambiate, la guerra in corso aveva portato in maggio alla firma dell’accordo per un’azione comune contro Hitler.
L’incontro con il primo ministro si svolse nel palazzo di Westminster e fu molto cordiale. Con loro grande stupore Churchill conosceva le decorazioni sovietiche e chiese quali imprese avessero compiuto per aver meritato quei riconoscimenti.
La signora Churchill illustrò le attività del fondo britannico di aiuti all’URSS da parte della Croce Rossa che aveva istituito nel settembre 1941. Era interessata al modo in cui era organizzato il servizio sanitario, l’assistenza sul campo di battaglia, l’impiego di farmaci e tecnologie mediche.
Ljudmila , l’unica dei tre ad essere stata ferita a Odessa e a Sebastopoli raccontò la sua esperienza. La signora commentò che trovava il sistema razionale ed efficiente e che le spiegazioni avute l’avrebbero aiutata a definire  con più precisione gli aiuti da mandare.
Tra il 1941 e il 1951 il fondo di Clementine Churchill raccolse più di 8milioni di sterline, corrispondenti a circa 200 milioni di oggi, e attrezzò diversi ospedali a Stalingrado e a Rostov sul Don. Nelle primavera del 1945 visitò l’Unione Sovietica e come riconoscimento del grande contributo dato, Stalin la premiò con un anello d’oro e diamanti, mentre il governo le conferì l’Ordine della Bandiera Rossa del lavoro.
Nell’ospedale cittadino di Volgograd (Stalingrado) è tuttora presente un bassorilievo in bronzo raffigurante la baronessa Clementine Ogilvy Spencer Churchill con la decorazione appuntata sul petto a ricordo della attività del suo fondo durante la guerra.
Ljudmila non poteva fare a meno di paragonare la signora Clementine a Eleanor Roosevelt. Avevano molto in comune: età, istruzione, posizione sociale. Entrambe prendevano parte alla vita pubblica, Eleanor aveva un modo di fare più schietto e democratico, conduceva le campagne elettorali del marito viaggiando in tutto il paese.
Le attività maschili invece non attiravano Clementine, si limitava al lavoro di beneficenza che svolgeva però in modo molto efficace. Finalmente, alla fine di novembre arrivò la notizia dell’avanzata sovietica a Stalingrado e del successivo accerchiamento dell’armata tedesca.
La vittoria di Stalingrado divenne da subito un mito per gli antifascisti di tutto il mondo e darà inizio a quel rovesciamento di posizioni degli anni 1942-43, nel quale sarà determinante il gigantesco potenziale economico e umano degli Stati Uniti.


Eleanor Roosvelt e Clementine Churchill nel 1943, durante la Conferenza di Quebec

IL RITORNO A CASA

Nella notte tra il 4 e il 5 gennaio i membri della delegazione salirono su un bombardiere quadrimotore B-24 Liberator che lasciò la Royal Air Force vicino Glasgow per dirigersi a Vnukovo nei pressi di Mosca. All’atterraggio trovarono i familiari che non vedevano da quattro mesi.
A Ljudmila fu assegnata una stanza in un dormitorio che fu presto riempita dalle valigie e dai numerosi regali ricevuti tra cui un fucile da trincea Winchester MI 1897  a canna  liscia che le era stato regalato dagli operai di una fabbrica d’armi di Toronto.
I membri della delegazione presentarono i rapporti sulla missione alle autorità competenti, poi ognuno prese la sua strada. Nikolaj Krasavcenko tornò al suo lavoro nel Comitato cittadino moscovita del Komosol. Vladimir Pcelincev fu rimandato al fronte come cecchino arrivando alla fine della guerra a un bottino di 456 nemici uccisi.
Ljudmila Pavličenko fu promossa al grado di tenete il 3 giugno 1943. Una sera bussarono alla porta due giovani ufficiali dell’NKVD e le chiesero di seguirli, era desiderata al Cremlino. Fu introdotta nello studio di Stalin che la salutò molto cordialmente stringendole la mano.
Lei gli restituì i due testi avuti in prestito prima della partenza. Questa volta è nervosa e le risposte sono confuse, tra l’altro Stalin chiede le sue impressioni sul presidente americano che dovrà incontrare in autunno.
Con suo grande stupore le chiede anche di illustrare il servizio da cecchino svolto nelle steppe vicino  Odessa e sulle colline intorno a Sebastopoli e quali siano state le modalità attuate in contesti ambientali così diversi.
A quel punto si fa coraggio e chiede di poter tornare a combattere. Stalin osserva che ha subito traumi e ferite, perché vuole tornare in prima linea? Lei risponde che vuole tornare dai suoi compagni e dare il suo contributo alla lotta, inoltre ora ha conoscenza ed esperienza e quindi maggiore possibilità di sopravvivere.
Ma il grande capo aveva già deciso, addestrerà istruttori di tiratori scelti nella scuola istituita nel villaggio di Vesnjaki vicino Mosca. Nel frattempo erano cambiati i regolamenti dell’esercito che lasciavano molto più spazio al ruolo dei cecchini. Un reggimento doveva averne ottantasette, una compagnia nove e un plotone tre, qualcuno doveva addestrarli in fretta e con maestria.
Furono istituite varie scuole e corsi l’addestramento venne esteso a sei mesi, in totale nel periodo della guerra  dal 1941 al 1944 vennero addestrati oltre 400.000 cecchini. Come ricompensa per i suoi meriti il 25 ottobre 1943 le fu conferito il titolo di Eroe dell’ Unione Sovietica e il suo nome inserito nell’albo d’onore.


Victor Bogoljubov,
Stalin, 1937, bozzetto in lega di bronzo, 25x15x10


DOPO LA GUERRA

Ljudmila non andrà combattendo fino a Berlino come aveva sognato. Invece dopo la liberazione di Kiev tornò all’università statale dell’Ucraina che era tornata in città dopo essere stata spostata in Kazakistan.
Nonostante i danni agli edifici, nel gennaio 1944 aveva ripreso le attività. Voleva essere riammessa alla Facoltà di storia, superare gli esami di Stato e finire la tesi iniziata prima della guerra.
Presentò domanda e l’esercito le concesse la licenza di un anno e terminò gli studi nel maggio del 1945. Tornò a Mosca dove le avevano assegnato un appartamento in cui abitava con la madre e con il figlio Rostislav.
Andò a servire nei ranghi della marina come assistente ricercatore nello stato maggiore, dipartimento di storia della flotta. Purtroppo le conseguenze delle ferite al fronte e le psicosi traumatiche vissute si fecero sentire in misura sempre maggiore. Riservata come sempre non le specifica nei dettagli, ma nel 1953 fu costretta a ritirarsi per malattia, mantenendo però il diritto di portare l’uniforme.
La pensione da ufficiale non era un motivo per stare a casa a non fare nulla. Nel settembre 1956 a  Mosca venne fondato il Comitato sovietico per veterani di guerra che raccoglieva migliaia di combattenti di tutte le regioni del paese. Lei svolse un ruolo molto attivo nella preparazione degli eventi, incontrando spesso i giovani nelle scuole e nelle università. Il Ministero della guerra credeva che l’impiego della bomba atomica avrebbe  risparmiato agli eserciti di scontrarsi con il nemico sul campo di battaglia.
Con suo grande dispiacere il mestiere di cecchino, sviluppatosi a un livello senza precedenti durante la lotta contro il fascismo, stava man mano svanendo nel nulla. Così a metà degli anni Cinquanta molte scuole e corsi per tiratori scelti furono chiuse e gli ufficiali esperti congedati.
In verità reparti di forze speciali vennero adeguatamente sviluppati, dovevano condurre operazioni in foreste, montagne e centri abitati, zone in cui l’impiego di armi pesanti era impossibile.
Nello stesso tempo una generazione di giovani ingegneri stava lavorando all’invenzione di nuove armi leggere. Alla fine nel 1963 venne adottato l’SVD, il fucile da cecchino DRAGUNOV, un ottimo prodotto alla cui realizzazione fondamentale fu il contributo dei tre cecchini veterani: Ljudmila Pavličenko, Pčelincev e di Zaicev.
Per questo ricevettero certificati onorari e doni, tra cui una pistola assemblata a mano con disegni originali.
Nel 1961 l’Unione Sovietica celebrò il ventesimo anniversario dall’inizio della Grande Guerra patriottica. Da Sebastopoli le arrivò un invito per partecipare all’evento “ I cecchini di Sebastopoli”, organizzato dal Comitato scientifico del Museo di Stato per i vent’anni dalla liberazione della città.
La città era tornata ormai all’antico splendore ma sia i giovani che le persone più grandi conoscevano bene le gesta dei soldati e degli ufficiali tra il 1941 e il 1942, ora era stata fondata anche una società sportiva la Dinamo che organizzò gare di tiro con un premio dedicato all’Eroe dell’Unione Sovietica Ljudmila Pavličenko.
La struttura del poligono era di altissimo livello anche in termini di sicurezza. La competizione fu inaugurata con le gare di pistola e Ljudmila sparò alcuni colpi . Negli ultimi anni provava molto interesse per le armi a canna corta anche perché non aveva più la forza   di maneggiare bene un fucile.
Quel giorno sotto il cielo sereno di Sebastopoli, quei giovani erano sportivi, ma domani? Se il proprio paese l’avesse richiesto sarebbero stati  dei super cecchini di prima linea.
Prese parte alla cerimonia di accensione della fiamma eterna ai piedi dell’obelisco sulla cresta di Sapun che ospitava il diorama dell’assalto al monte del 7 maggio 1944. Prima di tornare a Mosca andò al cimitero della Fraternità che era stato oggetto di aspri combattimenti nel giugno 1942. Per fortuna le bellissime tombe del XIX secolo erano state risparmiate dalla distruzione.
Nella parete nordorientale si trovavano le tombe di coloro che avevano preso parte alla difesa di Sebastopoli. Tutto era semplice e modesto, senza monumenti in marmo o busti di eroi. Vi regnava un silenzio solenne interrotto solo dal cinguettio degli uccelli.
Niente era cambiato da quando le truppe e gli ufficiali del 54° reggimento fucilieri avevano sepolto il sottotenente Aleksej Kičenko, valoroso ufficiale e suo marito. Era caduto in una guerra di una violenza e una crudeltà senza precedenti. Erano stati insieme sulla linea del fuoco, lei era sopravvissuta per vedere la vittoria e lui no.
Nel ricordare quei giorni disperati, pensò che la loro generazione si era trovata di fronte non solo a una grande prova ma anche a un grande privilegio.
Erano riusciti a difendere il proprio Paese come se tutti fossero nati, cresciuti, avessero lavorato e studiato proprio a quello scopo: proteggere la patria con il proprio corpo nel momento del bisogno.

 

CONCLUSIONI

Altre giovani donne hanno utilizzato un'altra arma altrettanto efficace, la macchina fotografica allo scopo di documentare e denunciare. Gerda Taro (1910-1937) che va in Spagna per dare il suo contributo allaconoscenza della Guerra civile spagnola (1936-1939). In prima battuta fotografa l'addestramento alle armi delle miliziane, poi si sposterà al fronte in Aragona e poi in Andalusia.
I suoi reportage sono di grande potenza espressiva e rispecchiano la sua energia e il suo spirito antifascista. In particolare molto efficaci sono le fotografie scattate con la fedele Leica della battaglia di Brunete, dove troverà la morte schiacciata da un carrarmato il 26 luglio 1937. Quel giorno avrebbe compiuto 27 anni.
Appartiene alla generazione delle pasionarie anche Lee Miller(1907-1977), modella, fotografa, reporter di guerra, molto bella e sensuale, é stata la musa di Man Ray e di Pablo Picasso che l'ha dipinta.
Attraverso l'obiettivo dell'inseparabile Rolleiflex, ha documentato sulle pagine di "Vogue" l'orrore del conflitto. Unica tra le poche "dames" a cui é stato concesso di entrare in un campo di concentramento tedesco lottando contro regolamenti e pregiudizi.

Gerda Taro e Lee Miller, fotografe di guerra


Infine ce l'aveva fatta ed era stata mandata al seguito della Quarantacinquesima divisione di fanteria della Settima armata statunitense che era entrata nelle fabbriche della morte di Buchenwald e di Dachau.
Documenta anche i soldati tedeschi, appartenenti alle SS, afflosciati in ginocchio a implorare inutilmente pietà, senza più fierezza, i visi tumefatti dalle percosse dei militari alleati entrati nel campo di sterminio, inorriditi di fronte alla tragedia e animati dal senso della giustizia più che della vendetta.
Non risparmia nulla alle lettrici eleganti, ma lei non sarà più la stessa. Tornata dal fronte, rimuoverà scientificamente ogni traccia del proprio passato che rimarrà sepolto nella soffitta della sua casa nel Sussex dentro una scatola di cartone fino a che una coincidenza fortuita, dopo la sua morte lo farà tornare alla luce.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Ljudmila Pavličenko: La cecchina dell’Armata Rossa. Casa Editrice Odoya Srl, 2021

  1. Janeczek: La ragazza con la Leica. Ugo Guanda Editore, 2017
  2. Dandini: La vasca del Führer. Einaudi Stile Libero,2020
  3. Aleksievič : La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella Seconda guerra mondiale. Bompiani Overlook, 2015.
  4. Armeni: Una donna può tutto. 1941: volano le streghe della notte. Ponte alle grazie, Firenze 2018.
  5. Villari: Storia dell’Europa Contemporanea. Editori Laterza, Bari 1971.
  6. Acrosso, C. D’Alessio: Mondo mitologico. Società Editrice Dante Alighieri, 1958.
  7. Bravo, A. Foa, L. Scaraffia: I nuovi fili della memoria, Vol.3°. Editori Laterza, Bari 2003.
  8. Prosperi, G. Zagrebelsky, P. Viola, M. Battini: Storia e identità, Vol.3°. Einaudi Scuola,2012.
  9. De Bernardi, S. Guarracino: Epoche, Vol. 3°. Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2012.

 

 

 

 

 

 

   

 

                   

  

 

    

        

 

 

                                                             

 

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