Quando la storia supera l’immaginazione

di Paola Brianti

Gli stessi potentati italiani puntavano gli occhi con curiosità mista ad apprensione, verso la straordinaria spedizione, intenzionati com’erano, a rimanere neutrali nella guerra e a non indispettire la Francia, la Spagna, l’Austria e l’Impero Ottomano...
(da Le marquis de Cavalcabò di Alesandro Cont)

La citazione sembrerebbe, con poche varianti di colore, la cronaca di un evento politico della nostra storia contemporanea. Correva, invece, l’anno 1769 e quella strabiliante esibizione di potenza navale era il preludio alla battaglia decisiva di Cerme che avrebbe distrutto l’invadente potenza dell’Impero Ottomano e permesso all’Imperatrice di tutte le Russie Caterina Seconda, di allargare i suoi interessi nel promettente Mare Nostrum.
La prima pedina da muovere era Malta, governata dal gran Maestro gerosolimitano portoghese Manuel Pinto da Fonseca, giunto ormai “sul passo estremo della sua estrema età”, ma ancora assai sensibile agli onori ed agli ossequi e, soprattutto, utile alla strategia dell’astutissima Imperatrice russa.
Caterina sapeva benissimo con quanto sospetto le sue manovre fossero viste dalle cancellerie europee e quanti interrogativi avrebbe sollevato una flotta russa approdata per la prima volta sulle sponde di quell’isola che, fra l’altro, non aveva alcun rapporto diplomatico con San Pietroburgo.
L’Imperatrice doveva quindi agire con estrema prudenza e scegliere con cura la persona che avrebbe dovuto degnamente rappresentarla, tanto abile e capace, da riuscire a neutralizzare ogni possibile timore.
Scartati dunque tutti i membri della sua espertissima schiera di diplomatici, scelse un italiano, il Marchese Giorgio di Cavalcabò. Era arrivato in Russia tre anni prima, ricco soltanto della sua ostinazione a rivendicare una nobiltà nella quale ormai in pochi credevano e di una straordinaria abilità nell’intrecciare relazioni con l’alta società che tutti riconoscevano e che in troppi temevano.
Parlava splendidamente non soltanto la sua lingua d’origine, ma anche il francese e il tedesco in particolare, qualità che non poteva non commuovere l’Imperatrice che aveva ben poche occasioni di parlare la lingua della sua giovinezza.
Era arrivato a San Pietroburgo ormai cinquantenne, proprio quando il leggendario Giacomo Casanova, di dieci anni più giovane, se ne tornava in patria senza aver ottenuto praticamente niente da Caterina e, con ogni probabilità, senza neanche essere riuscito a sedurla.
Come un aristocratico trentino sconosciuto ai più, fosse arrivato a San Pietroburgo e da lì, fosse riuscito ad aprire le relazioni diplomatiche tra lo Stato monastico e la Russia, in uno dei periodi più intricati e complessi della storia d’Europa, sarebbe rimasto un enigma irrisolto, se un appassionato studioso dell’età dei Lumi, non avesse avuto la ventura di incontrare il Marchese quasi per caso, tra le pagine sbiadite dai secoli degli archivi sparsi tra l’Austria e la Germania.



A Vienna, nel corso delle sue ricerche sui rapporti tra le cancellerie austriache e quelle italiane, fu colpito dalla testimonianza sulla presenza nella capitale austriaca di un suo conterraneo di Rovereto, divenuto nel 1742 Cavaliere di corte della principessa Anna Vittoria di Sassonia-Hilburghausen, erede del condottiero imperiale Eugenio di Savoia. L’intraprendente cavaliere italiano resterà al suo servizio per sette anni, fino a quando non deciderà di diventare istruttore dei due figli del principe Dietrichstein e cogliere l’opportunità di viaggiare, conoscere il mondo e, soprattutto, intrecciare nuove e proficue relazioni.
Il periodo era burrascoso. Con l’avvicinarsi della metà del secolo, le certezze che fino a pochi anni prima avevano retto come solidi e inamovibili pilastri i sistemi di vita di una società arroccata sui suoi secolari privilegi, si stavano lentamente sgretolando. Le cancellerie dell’intera Europa erano in fermento e si stava addirittura profilando l’alleanza tra l’Austria e la Francia.
L’inquietudine dominava gli spiriti più sensibili, la ragione stava prevalendo sul fideismo e, da Berlino, Voltaire col suo Maometto, denunciava ogni tipo di fanatismo religioso.
Collezionista d’arte e perfino mercante di quadri, brillante conversatore in italiano, tedesco e soprattutto in francese, il trentino Cavalcabò riuscì sempre a dominare le avversità della sua vita avventurosa.
Nel 1758, nel pieno svolgimento della Guerra dei sette anni, quando già aveva superato la fatidica soglia dei quarant’anni, a lui ed al fratello Melchiorre venne brutalmente annunciato che i sovrani austriaci avevano opposto un netto rifiuto al riconoscimento della nobiltà della loro famiglia. Rimasti senza impiego, ai due sventurati non restò altra scelta che chiedere asilo al nemico dell’Austria, il re di Prussia Federico II. Il marchese di Cavalcabò, col fratello e la sua famiglia, riparò quindi a Neuchatel e, da nobile aristocratico, si trasformò in abile avventuriero.
Lasciò Neuchatel, si trasferì ad Amburgo, divenne commerciante di tabacchiere di lusso. L’agiatezza di un tempo era ormai un sogno lontano e, ad aggravare la sventura, sopravvenne il lutto per la morte del fratello. Ma la rassegnazione non faceva parte del carattere del marchese tridentino che, come ricorda Jean Boutier nelle sue brillanti Réflexions sul saggio di Cont, confessava «Je me suis toujours flatté de puovoir réussir au dessus du médiocre». E siccome la fortuna aiuta gli audaci, ecco che quando tutto ormai sembrava perduto, arrivò la speranza in una vita nuova, lontano, oltre l’Europa, verso le sconfinate steppe della Russia.
Caterina IIa aveva bisogno di popolare vaste terre del suo regno ancora incolte, mentre in Europa, la miseria e la fame costringevano molti a cercare fuori dai confini della patria, pane e lavoro.
Il Cavalcabò decise di condividere i sogni di quei miserabili, ma certamente mai la condizione né, tanto meno, le prospettive. Gli fu così risparmiata la tragica sorte dei coloni, sterminati durante la rivolta di Pugachev o ridotti a schiavi dei tartari. Il cavaliere mirava a San Pietroburgo, dove infatti, arrivò coi i due figli del fratello defunto e dove riuscì ad accattivarsi le simpatie del potente favorito di Caterina, il famoso Orlov. In breve, ottenne dall’Imperatrice l’ammissione nella eletta schiera della nobiltà russa, riuscì a fare assumere il nipote più piccolo come paggio e, soprattutto, a conquistare la fiducia di Caterina.
Dotato di un fascino straordinario e, al tempo stesso, di una estrema prudenza, era anche uomo di grandi ambizioni e di profonde intuizioni. Seppe mantenere il segreto sulla sua nomina a chargé d’affaires, come sulla sua missione a Malta, fino al momento della partenza. Prima di approdare alla grande isola del Mediterraneo, ebbe perfino l’accortezza di lasciarsi alle spalle la lussuosa nave russa dove aveva navigato fino a Mahon e, dopo una breve sosta, si imbarcò con la massima discrezione su un brigantino battente bandiera inglese che lo condusse fino a Malta.

La sua missione nell’isola si protrasse per sette anni, visse i disordini della crisi e della ribellione maltese, intuì le mire della Francia e dell’Inghilterra sull’isola, ma quantunque la sua responsabilità nella rivolta contro il nuovo Gran Maestro di Malta non venisse mai provata, le accuse esplicite dell’incaricato francese, lo indussero a partire.
La decisione fu presa a malincuore. Malta era divenuta per lui quasi una seconda patria che gli aveva dato ricchezza, onori e forse anche l’amore. Ritornò per l’ultima volta a San Pietroburgo e, dopo tre anni, quando si avvide che il potere del suo antico protettore Orlov si stava rapidamente dissolvendo, lasciò la Russia per sempre.
Dopo aver trafficato a Marsiglia, scelse di vivere a Parigi, rassicurato dalla pensione che Caterina gli garantì fino agli ultimi giorni della sua vita straordinaria e, pur senza nascondersi mai, fu tra i pochi del suo rango a scampare alla ghigliottina. Morì nella capitale francese nell’ottobre del 1799, mentre sorgeva l’astro di Napoleone e tutto il mondo che aveva conosciuto stava tramontando per sempre.
La discrezione che sempre avvolse la vita del Marchese Giorgio di Cavalcabò, ha gelosamente protetto a lungo i suoi segreti, impedendo perfino una esauriente ricerca su anni cruciali per la storia e che spesso visse da protagonista.
Per scoprire fin nei più nascosti meandri, i segreti di un personaggio tanto appariscente quanto criptico e misterioso, Alessandro Cont ha indagato su documenti d’archivio sparsi in 22 diverse città del mondo, da Trento, a Bruxelles, a Roma, fino a Parigi, a Berlino, a Vienna e a New Haven.
Il saggio Le Marquis de Cavalcabò, arricchito dalla presentazione di Elena Smilianskaia, docente all’Università di Mosca e dalle Réflexions dello storico francese Jean Boutier, apre per la prima volta pagine di storia condannate per secoli all’oblio, eppure fondamentali per lo studio sulla politica dell’Europa dopo la Guerra dei sette anni e l’inarrestabile cammino di una nazione divenuta presto Grande Potenza, avviato da Caterina Seconda con l’aiuto e la perspicacia di un aristocratico trentino.
Sarebbe senza dubbio molto interessante sapere a cosa fosse dovuta la stima incondizionata che l’Imperatrice riservò al marchese avventuriero, ma il saggio di Alessandro Cont si limita allo studio rigoroso dei documenti e, come è universalmente noto, i segreti dell’alcova assai di rado vengono affidati ai fascicoli degli archivi.

   Breve accenno sull’Autore   
Storico di fama internazionale nonostante la sua giovane età, Alessandro Cont ha conseguito la laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università di Trento e la laurea in Storia Della Civiltà Europea.
Archivista di rara competenza, profondo studioso dell’Età dei Lumi, ha pubblicato numerosissimi saggi sulla storia e sulla società del Settecento.
Il suo ultimo lavoro, Le Marquis de Cavalcabò - Un grande avventuriero nell’Europa del Settecento, è già stato presentato in diverse Università italiane, tra cui quella di Bologna e quella di Perugia, riscuotendo un raro interesse tra gli studiosi della moderna storia d’Europa. 

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